Non è facile scrollarsi di dosso ciò che resta dopo oltre 40 anni di “sviluppo separato”, l’eufemismo con cui nel vecchio Sud Africa veniva chiamato il vergognoso regime di apartheid. Ma dopo la svolta degli anni Novanta, i sudafricani ci stanno provando. E per rimettere in marcia il traballante sistema economico del paese, il governo di Mandela ha varato lo scorso anno il progetto Gear (Growth, Employment and Redistribution), un acronimo che in inglese significa appunto “marcia”. Il programma, e la situazione economica lasciata in eredità dal passato regime, sono stati illustrati nei giorni scorsi al Cnr di Roma durante un seminario di Rachel Jafta, ricercatrice del dipartimento di economia dell’Università di Stellenbosch, Sud Africa.
Secondo la Banca mondiale il Sud Africa rientra oggi nella stessa categoria di paesi come il Brasile o la Turchia, che stanno faticosamente tentando di recuperare il gap che li separa dai paesi ricchi. Ma ha ereditato un sistema politico, sociale ed economico molto particolare. Un sistema che in campo economico-industriale era basato su due principi: barriere doganali contro le importazioni, e aiuti statali per le esportazioni.
Le prime barriere doganali vennero introdotte addirittura alla fine degli anni Venti. E anche queste avevano uno sfondo razziale. In seguito alla grande crisi del ‘29, infatti, si era creato anche in Sud Africa il problema dei “bianchi poveri”: contadini bianchi, in maggioranza di origine boera, che emigravano nelle città. Ma privi di una adeguata istruzione, si ritrovavano ai limiti della povertà. Soluzione: se un’industria garantiva di assumere una certa percentuale di lavoratori bianchi, poteva richiedere direttamente al governo l’istituzione di una tariffa doganale che ne proteggesse i prodotti contro la concorrenza straniera. Il sistema è poi proseguito ottenendo un doppio risultato: una complicata miriade di tasse e balzelli di varia natura sulle importazioni, e una sostanziale mancanza di competitività dell’industria, i cui dirigenti erano più preoccupati di ottenere barriere doganali da Pretoria che di mantenere i loro prodotti ai livelli del mercato.
Così durante gli anni Settanta e Ottanta il governo fu costretto a lanciare una serie di incentivi e aiuti a sostegno delle esportazioni. Ma se in altre nazioni le politiche di protezione doganale e di incentivo alle esportazioni hanno avuto effetti benefici, per il Sud Africa non è stato così. Anche perché i commerci erano limitati dalle sanzioni internazionali, che rendevano di fatto inacessibili i mercati stranieri. A questo si aggiungeva poi una situazione sociale che vedeva due sudafricani su tre esclusi da ogni forma di assistenza socio-sanitaria, e da una preparazione professionale degna di questo nome.
Con la fine dell’apartheid le sanzioni internazionali sono state tolte, e il Sud Africa è stato riammesso nelle organizzazioni internazionali come il Fondo monetario internazionale e l’Organizzazione per il commercio. E il programma Gear punta a un rilancio complessivo dell’economia. Una riforma del bilancio che preveda una distribuzione più equa della spesa pubblica, un’energica politica anti-inflazione, la progressiva diminuzione delle barriere doganali, incentivi fiscali agli investimenti, privatizzazioni.: questi sono solo alcuni dei punti del progetto che entro il 2000 dovrebbe portare a una riduzione del deficit al 3% sul Pil e a 400 mila nuovi posti di lavoro all’anno.
In campo industriale sono due i settori particolarmente “coccolati” dal Gear: quello delle piccole e medie imprese, con una articolata serie di iniziative, e quello delle tecnologie. Le imprese sono incoraggiate a favorire lo sviluppo tecnologico dei loro processi produttivi con un finanziamento del 50% delle spese sostenute per il “lancio” a livelli competitivi dei loro prodotti. Inoltre sono favorite e finanziate le attività condotte assieme alle istituzioni di ricerca, soprattutto nei settori dell’ingegneria e delle scienze naturali, che coinvolgano anche studenti e ne garantiscano una formazione adeguata.