La chiamano “leaky pipeline”, la condotta bucata che invece di perdere acqua perde preziose competenze, entusiasmi, capacità. Sono quelli delle giovani donne che nella vita hanno scelto di intraprendere la carriera scientifica, iscrivendosi a una facoltà di biologia, fisica, ingegneria, poi ottenendo un dottorato o un master, infine inseguendo in tutta Europa o dall’altra parte dell’Oceano un posto da ricercatrice, nella speranza un giorno di avere una cattedra tutta per sé. Ma lungo il percorso, attraverso le mille fenditure della condotta, molte donne si perdono, rinunciano, si ritirano. Troppo faticoso conciliare la vita professionale con quella familiare, quasi impossibile sopravvivere in un mondo tagliato su misura per il genere maschile, ancora molto forti gli stereotipi che continuano a dipingere le donne come esseri “geneticamente inadatti” alla vita nei laboratori.
Il panorama è tracciato dalle She Figures 2009, le statistiche relative alla presenza del sesso femminile nel settore scientifico presentate a Praga in occasione del congresso “Changing research landcapes to make the most of human potential”, indetto il 14 e il 15 maggio scorso in occasione dei dieci anni di attività dell’Unione Europea nelle politiche di genere nel settore scientifico. Un panorama nel quale l’Italia non primeggia per buone pratiche, se si pensa che il nostro paese risulta, tra le altre cose, sotto la media europea per quanto riguarda la proporzione di donne nelle posizioni accademiche più elevate, nei consigli di amministrazione o a capo di enti di ricerca. Teresa Rees, prorettore per la Ricerca della Cardiff School of Social Sciences, chiamata a riassumere il senso dei lavori della conferenza, parla a Galileo di quello che è stato fatto e di quello che ancora resta da fare.
Professoressa Rees, quali sono, secondo lei, le ragioni principali della leaky pipeline?
“Direi che si tratta di una combinazione di fattori. In primo luogo, c’è una mancanza di trasparenza in alcune fasi del processo di reclutamento, in particolare a livello di post doc, che è dove si verificano le perdite maggiori. Spesso in questa fase il professore può scegliere tra i suoi studenti quali possono continuare a fare ricerca, secondo una procedura molto personale che non favorisce le ragazze. Ovviamente un altro momento critico è quando le donne decidono di avere un figlio, una scelta che le tiene lontane dalla ricerca per un po’, e spesso in alcune istituzioni il rientro è molto difficile quando non impossibile. Per altri versi, è anche vero che le donne non amano lavorare in settori dominati dal genere maschile (penso ad alcuni dipartimenti universitari), e dunque si rivolgono ad altre aree della conoscenza. Inoltre, in alcuni momenti topici della carriera le donne possono avere maggiori difficoltà a spostarsi, a causa dei figli o dei genitori anziani da accudire. La combinazione di tutti questi elementi rende in salita la strada delle donne”.
Una sessione del congresso è stata dedicata all’insegnamento delle scienze nella scuola primaria. Secondo lei in quale punto del percorso bisogna intervenire per aiutare le ragazze a non perdere la passione per la scienza e la voglia di trasformarla in una carriera professionale? Crede che sia necessario intervenire anche sulla formazione degli insegnanti?
“Assolutamente sì, penso che sia necessario agire dall’inizio e per tutto il percorso scolastico. In ogni caso, ritengo che dovremmo intanto integrare le scienze in tutti i curricola, invece di farne una scelta che si può seguire o meno. Il rischio, altrimenti, è che se non si sceglie quella materia non si avrà mai la possibilità di diventare adulti scientificamente competenti. Mi chiedo per esempio perché anche i curricola di storia, geografia o lingua non possano integrare degli elementi di scienza e tecnologia. Infine, credo che sia necessario modificare il modo in cui si insegnano le scienze a scuola, magari mettendo più enfasi sulle possibili applicazioni: è ormai evidente, per esempio, che le ragazze non sono interessate alle scienze informatiche, a meno che queste non abbiano dei risvolti pratici nella soluzione di problemi (quelli ambientali, quelli medici). E lo stesso discorso vale per molte altre materie”.
Pensa davvero che le politiche comunitarie possano influenzare quelle nazionali? Dall’Italia, a volte, l’Europa appare davvero lontana…
“La Commissione, che già ha preso molte iniziative lodevoli nel campo dell’equità di genere, potrà fare ancora di più se verrà influenzata dai membri del Parlamento europeo per il quale andremo a votare nelle prossime settimane. Sappiamo che i ricercatori dei paesi dell’Unione sono interessati ai finanziamenti per i loro progetti, e se la Commissione insiste sul tema del genere questo avrà un effetto. Già ora molti enti europei hanno cominciato a prestare grande attenzione alle politiche di genere nella ricerca. E credo che tutti, in Italia come nel Regno Unito e ovunque nell’Unione, siano stati coinvolti da questi cambiamenti promossi dalla Commissione. In questo senso tutti noi uomini e donne di scienza possiamo contribuire a modo nostro, migliorando i meccanismi di peer review, o promuovendo piattaforme di collaborazione”.
In questo convegno sono stati illustrati molti esempi di aziende che stanno promuovendo delle politiche di genere molto aggressive. Pensa che nel settore privato le cose si muovano più velocemente rispetto all’ambiente accademico?
“In parte sì: alcune aree del settore privato sono effettivamente più avanti, penso per esempio alle aziende del settore Ricerca e Sviluppo, molto propense a stimolare l’innovazione e di conseguenza la diversità, perché hanno capito che persone uguali producono idee uguali. Ma in altri settori le cose sono molto peggiori. Il settore pubblico, e in particolare l’università, si trova a metà strada tra questi due estremi”.
Non crede che se il panorama è così sconfortante, è perché anche le donne hanno le loro responsabilità?
“Certamente. Tanto per cominciare, le donne sbagliano perché si tirano indietro, non si sentono adatte. Nel mio paese, per esempio, ho notato che le donne nella ricerca non hanno la capacità di proiettarsi nel futuro. E invece io credo che sia un dovere delle donne di scienza già “arrivate” far avanzare le più giovani e incoraggiarle ad avere fiducia nelle loro capacità. Inoltre sbagliano coloro che accettano il sistema per quello che è, soprattutto se sono in una posizione dalla quale sono in grado di influenzare le istituzioni. Uomini e donne hanno la stessa responsabilità nel cambiare lo status quo, siano esse negli enti di ricerca, al governo o in qualunque altra posizione”.
Questo incontro nasce per fare il punto su dieci anni di politiche di genere in Europa. Lei cosa si aspetta per il prossimo decennio?
“Innanzitutto spero che alcuni processi già in atto si velocizzino. Spero che gli obiettivi che abbiamo in mente vengano raggiunti attraverso un lavoro di partnership, che è certamente più efficace dell’approccio individuale. Spero che si studino curricola generali più adatti ad attirare le donne verso la scienza, e che rendano scientificamente più consapevoli i cittadini. Spero che riusciremo a vedere un maggior numero di donne negli organi decisionali. Spero che si riesca a inquadrare adeguatamente la dimensione del genere nella diffusione della scienza. Ecco, questa è la mia lista dei desideri. Poi, se mi si chiede cosa credo che accadrà nei prossimi anni, beh, ritengo che faremo alcuni progressi nel raggiungimento di questi obiettivi, ma che ci vorrà ancora molto tempo per centrarli definitivamente. Onestamente, penso che ci sia ancora molto da lavorare. D’altra parte la mancanza di fondi nella ricerca non ci aiuta, così come non aiuta avere uomini mediocri ai vertici, quando ci sono delle donne eccellenti che non vengono chiamate a causa del loro genere. Ma questo non aiuta la società nel suo complesso”.