C’è qualcosa che unisce tutti questi ceppi virali?
Per saperlo bisogna comprendere la natura di quella prima devastante pandemia. Ci provano ora due studi pubblicati sulle pagine online della rivista Science. Il virus influenzale presente nell’aria viaggia verso la superficie dei polmoni dove riesce a insinuarsi all’interno fino a “colonizzare” le cellule e potersi così replicare. “L’aggancio avviene grazie a delle proteine, le emoagglutinine (Ha), presenti nei virus che si legano ad alcuni recettori presenti sulla superficie delle cellule umane”, spiega John Skehel, del National Institute for Medical Research (Nimr). E proprio su questo meccanismo si è focalizzata l’attenzione dei due gruppi di ricerca.
Utilizzando entrambi la cristallografia a raggi X, una tecnica che utilizza questi raggi per fotografare la struttura di materiali viventi e non, i ricercatori del Nimr e quelli del The Scripps Research Institute hanno rispettivamente determinato la struttura tridimensionale dell’Ha e confrontato la proteina presente nel virus della spagnola con quelle dei virus che colpiscono gli animali.
Le emoagglutinine che riescono ad agganciare le cellule umane sono diverse da quelle che colpiscono gli animali. Per questo i virus che colpiscono gli uccelli attaccano gli umani solo raramente. Per farlo le loro Ha devono mutare: esattamente ciò che è stato dimostrato essere successo nel caso dell’H1. I risultati della ricerca di Skehel evidenziano infatti che le porzioni di Ha che nel 1918 si sono legati ai recettori presenti sulle cellule umane contenevano aminoacidi del virus aviario posizionati però in maniera diversa da quelli presenti nel virus animale. In questo modo l’H1 ha potuto interagire con le proteine umane e quindi consentire al virus di essere trasmettersi nella popolazione. Un dato confermato dal secondo studio.
James Stevens e colleghi hanno messo a confronto l’emoagglutinina dell’influenza del 1918 con quella umana, aviaria e suina. “Abbiamo scoperto che la proteina del 1918 assomiglia molto a quella tipica degli uccelli ma ha anche caratteristiche simili a quella che colpisce gli umani”. Una sembianza “camuffata” che ha spiazzato il sistema immunitario umano impreparato a difendersi dall’attacco. Si spiegherebbe così perché la spagnola ha colpito anche giovani adulti, solitamente i meno soggetti all’infezione, e perché in alcuni casi la mortalità ha raggiunto il 70 per cento.
Il mistero della spagnola, durato 85 anni, potrebbe quindi essersi risolto. Un enigma complicato dal fatto che il virus è stato isolato solo nel 1930 e che i campioni di polmoni infetti a disposizione dei ricercatori sono pochissimi. In particolare i biologi molecolari hanno potuto far affidamento solo sulle biopsie conservate presso l’Istituto di Patologia delle forze armate statunitensi e su un campione prelevato da una donna Inuit sepolta sotto il permafrost in Alaska. Da questi è stato possibile ricavare dei frammenti di Rna del virus e le sequenze del gene che codifica per la proteina virale Ha.
Queste scoperte potranno essere utili per fronteggiare l’influenza dei polli? “Abbiamo capito che le emoagglutinine dell’H5 sono piuttosto diverse da quelle del virus del 1918”, rispondono i ricercatori del Nimr, gli stessi che nel 2001 scoprirono la struttura del virus H5 da cui deriva il ceppo N1. “Aver compreso la struttura della proteina grazie a cui il virus della spagnola si è agganciato alle cellule umane ci consente di monitorare i cambiamenti che avvengono nei virus. Una possibilità estremamente importante ai fini della tutela della salute pubblica anche se non ci consente né di predire né di prevenire nuove forme di influenza”, conclude il ricercatore.