Una pandemia che si perpetua da migliaia di anni, sottaciuta e talmente radicata nelle culture e nelle società umane che non ce ne rendiamo pienamente conto: è la violenza che, ancora oggi, colpisce 1,2 miliardi di donne nel mondo. Una strage silenziosa, frutto di “relazioni di potere storicamente ineguali” fra i sessi, come ricordava vent’anni fa la risoluzione dell’Onu con cui si designava il 25 novembre Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Nel mondo, una donna su tre la subisce, e spesso proprio per mano dell’uomo che ama e che diceva di amarla. Storie di quotidiana violenza che vedono spesso le donne incredule, restie fino all’ultimo a riconoscere nell’uomo che hanno accanto il proprio aguzzino.
Da migliaia di anni diverse religioni e sistemi sociali – talvolta anche la scienza – perpetuano più o meno esplicitamente procedure che schiacciano le donne, le mogli, ponendole in condizioni di inferiorità davanti agli uomini, ai mariti. E’ vero, da qualche tempo – e almeno a parole – si predica l’uguaglianza tra i generi. Ma ancora oggi i femminicidi proseguono a ritmo sostenuto, e le violenze occulte riempiono di piccole umiliazioni, di invisibili ferite la giornata di molte. Le donne, di qualunque religione e condizione sociale siano, accettano spesso questa situazione con pazienza, se non con accondiscendenza e, pur senza dichiararlo esplicitamente, anche scienza e società si comportano come se il subire sia inevitabile e la violenza sia, in qualche modo, parte della vita.
Le giustificazioni sono tante: il maschio è fisicamente più forte (ma non è sempre vero). I comportamenti violenti e aggressivi sono in relazione con gli ormoni sessuali, tipo il testosterone; la neurofisiologia dice che nei comportamenti aggressivi sono coinvolte alcune importanti strutture cerebrali. Dal punto di vista sociale, poi, ci sono madri che educano i figli maschi nella convinzione di poter fare e avere tutto ciò che vogliono… E così molte donne subiscono violenze e soprusi come se fossero dovuti, senza trovare modi efficaci di ribellarsi.
La protagonista del bel romanzo di Silvio Danese è stata per anni vittima delle violenze del marito. Ragazza innamorata, giovane sposa, madre di due ragazzi, subisce aggressioni al limite della sopravvivenza fino a quando riesce a difendersi da un ultimo e probabilmente definitivo pestaggio uccidendo l’uomo a coltellate. Nelle lunghe interviste concesse dal carcere in cui è stata rinchiusa, ascoltiamo la sua voce di donna che non cerca giustificazioni ma racconta la sofferenza di non aver mai potuto accordare i suoi desideri di vita con quelli del suo uomo, rivivendo la enorme colpa di non essere mai stata esattamente quella che lui si aspettava da lei. La sistematica inadeguatezza ad un modello immaginario, imposto a base di punizioni e botte da un maschio debole e insicuro, le impedisce ogni possibilità di cura per la sua personalità mutilata: il successo sul lavoro non è una conquista ma un oltraggio, l’attenzione alla casa un fallimento, le botte sono la giusta punizione per non aver disposto le cose nell’ordine preciso imposto dal marito che decide su tutto quello che bisogna fare. La disapprovazione della famiglia di lui investe tutto il suo essere: i silenzi feroci della suocera e dei cognati che non la accettano e non rispettano i suoi diritti di donna la rinchiudono in un mondo dove la difesa dei figli diventa l’unico scopo delle giornate.
Ma perché lo sposo di una bella donna desidera soltanto umiliarla? Perché un maschio trova omertà tra gli altri maschi se riduce una donna in fin di vita? Perché le solidarietà virili invitano a ritirare le denunce che in momenti di terrore e coraggio una donna riesce a fare? Perché ostentare disprezzo sistematico per i gesti quotidiani di cura e di attenzione – preparare il pranzo, pulire casa – che pure sono alla base di una vita familiare? Perché tutto questo va comunemente sotto il nome di amore? Il giornalista che intervista in carcere la donna cerca di conoscere i dettagli di questa dolorosa sensazione di inadeguatezza, fondata sulla gelosia, su modelli di vita e comportamento reazionari, su un desiderio di autonomia femminile che emerge lentamente ed illumina una improbabile possibilità di futuro.
Nelle stanze del carcere dove è stata rinchiusa dopo un processo in appello, tra parole e silenzi si costruisce una apparente solidarietà che avvicina la donna e l’uomo che indaga sulla sua vita passata con l’intenzione di raccontarne la storia. Un libro dovrebbe mettere in luce le ragioni del delitto, la sequenza degli eventi che lo hanno imposto, la quotidianità della distruzione psicologica di lei. Il marito morto è presente con la sua ingombrante prepotenza ma lascia spazio ai pochi momenti in cui la donna racconta il coraggio con cui è riuscita a seguire la sua strada liberandosi dalle imposizioni: comprare un tavolo coi suoi soldi, cambiare lavoro sottraendosi a controlli ed insulti quotidiani, chiedere una separazione e andare ad abitare in una casa sua.
Anche nel suo racconto al giornalista, la sposa continua a ricordare la sua offerta di obbedienza e sacrificio, nell’attesa non tanto di essere amata – ricordi di gioventù – ma di “essere voluta bene”, di avere un gesto di tenerezza vero, intimo, capace di riscattare tanta aggressività. Parla della lotta affinché i figli non si rendano conto del suo rapporto di violenta dipendenza dal padre, cercando di difenderne il ruolo proteggendolo, e proteggendoli, ma al tempo stesso negando loro una capacità di giudizio. La vita con i figli, formalmente corretta, è falsa nelle fondamenta, ed entra nel gioco delle “buone creanze” accettato dai vicini, dai parenti, dagli amici rimasti.
Ma per il futuro dei figli bisogna incontrarsi ancora col loro padre, e rischiare.
Dopo l’ultimo scontro, dopo aver subito ancora botte e umiliazioni la donna, forse solo per un momento, si sente forte, padrona della situazione, si ribella all’ennesima violenza e la paura di essere uccisa la costringe a uccidere, a difendere la sua vita. Ma anche in questa tragica conclusione, di cui non sapremo mai i dettagli, al momento dell’omicidio, appare il suo stupore di moglie, l’incredulità tutta femminile e coniugale di poter essere uccisa da qualcuno di cui ci si stava prendendo cura, da qualcuno a cui si stava preparando una cena gustosa, condividendo una abituale situazione domestica.
Tra l’uomo che ascolta e cerca di pilotare il dialogo chiedendo dettagli e la donna che mentre racconta costruisce altre realtà scavando nei suoi ricordi, si alternano momenti di condivisione e di vicinanza, rapidi punti di incontro da cui le due strade divergeranno. Effimeri momenti di partecipazione nascondono quegli aspetti della vita di cui non si ha il coraggio o la voglia di parlare. Ed anche il rispetto con cui l’uomo ascolta l’intreccio delle vicende non basta a cancellare la sensazione di tradimento e di abbandono, la perdita di potere quando la donna, forse finalmente libera e autonoma, rifiuta nuovi momenti di dialogo. L’intesa tra i vivi si è rotta ma la morte è sempre presente e resta la fantasmagoria di una immagine, quella del marito ucciso incontrato in sogno dal giornalista nella palude in cui il cadavere era stato nascosto.
Il libro
Silvio Danese, Intervista alla sposa, La nave di Teseo, 2020, pp. 527, € 19,00
Credits immagine: Sydney Sims on Unsplash