Investire sul futuro

Il mondo industrializzato si sta accorgendo che, sui tempi lunghi, strategie energetiche miopi non tornano a vantaggio di nessuno, neppure dei pochi che pensavano di giovarsene. L’impatto delle emissioni sull’atmosfera e il degrado ambientale ne sono una chiara testimonianza.

Inoltre, il processo di globalizzazione, non solo dell’economia, impone una nuova considerazione del ruolo dei paesi del Sud del pianeta, che non possono continuare a essere un serbatoio bruto di materie prime e di mano d’opera a basso costo o, peggio, una pattumiera per scorie e rifiuti industriali. Partendo da queste considerazioni, quale sarà lo scenario energetico mondiale tra venti, trenta, o cinquant’anni? Abbiamo chiesto a Sergio Garribba, già direttore per le tecnologie dell’energia presso l’OCSE, oggi commissario dell’Authority per l’energia, di immaginare quale configurazione potrà assumere nei prossimi decenni l’equilibrio energetico mondiale.

Professor Garribba, pensando a uno scenario energetico del futuro, quanto è importante che il mondo industrializzato consideri in modo nuovo il ruolo dei paesi del Sud del mondo?

Ritengo che avere una visione di questo tipo sia estremamente importante, anche per meglio definire il futuro energetico ed economico del nostro paese e dei paesi con i quali il nostro va a integrarsi e a collaborare. Nel lungo periodo, penso che si possa fare riferimento a due tipi di scenari geopolitici, dagli esiti molto diversi fra loro. Il primo è uno scenario di crescente globalizzazione del sistema economico mondiale, in cui il recupero e lo sviluppo dei paesi del terzo mondo è sostanzialmente guidato dalle forze di mercato, ovvero da investimenti da parte dei paesi avanzati, e comunque da parte di soggetti che decidono di assumersi rischi e conseguenti profitti consentendo, attraverso difficili processi di ristrutturazione, ai paesi del Sud del mondo di entrare a far parte integrante di un’economia complessiva e interconnessa. Considerazioni del tutto analoghe si applicherebbero anche ai paesi in via di transizione dell’Europa orientale e dell’Est.

Questo primo scenario, che chiamerei “scenario di ponti e mercati”, lo immagino fatto di collegamenti e collaborazioni economiche forti tra paesi. L’altro, è uno scenario geopolitico che per simmetria potremmo chiamare di “barriere e nuovi confronti”, caratterizzato da blocchi economico-politici contrapposti, da aree di influenza antagoniste. In sostanza, un contesto simile a quello da cui usciamo, che ha caratterizzato le politiche economiche e energetiche fino all’inizio degli anni ‘90. Niente ci fa dire che questo tipo di scenario non possa, nel lungo periodo, riprodursi. Ad esempio l’attuale crisi delle economie del sud-est asiatico e dell’economia russa, qualora non fosse contenuta e governata, potrebbe rimettere in gioco e alterare profondamente un ordine economico a cui ci si stava abituando.

E’ evidente che, pur nel loro schematismo, questi due scenari geopolitici hanno implicazioni profondamente differenti per i paesi più poveri e vulnerabili. Nel caso dello scenario “ponti e mercati” i paesi in via di sviluppo e in via di transizione potrebbero gradualmente inserirsi nella logica di mercato aperto ed entrare a far parte di un sistema economico globalizzato. Nel secondo caso, i paesi economicamente arretrati si vedrebbero attratti all’interno di nuovi blocchi e i paesi dominanti, nell’ambito delle rispettive sfere di influenza, si dovrebbero fare carico delle prospettive di sviluppo di questi paesi. Più che una logica di mercati, qui prevarrebbe una logica di aiuti, di cooperazioni incrociate, finalizzate anche ad alleanze politico-militari e rapporti di dipendenza subordinata.

Immagino che anche le scelte energetiche, all’interno di questi due ipotetici scenari, sarebbero diverse…

I due contesti che ho delineato – che, tengo a precisare, non sono opzioni ma piuttosto tentativi di descrivere l’evoluzione complessiva dei rapporti tra paesi – implicano strategie energetiche e quindi scelte e modalità di utilizzo delle fonti energetiche molto diverse tra di loro. In un contesto in cui prevale la logica del mercato, i paesi in via di sviluppo finirebbero con l’adottare i modi di produzione e di utilizzo dell’energia prevalenti nel mondo industrializzato, che oggi si basano sui combustibili fossili, in particolare sul petrolio e sul gas, e che puntano ad un uso sempre più efficiente delle risorse dando impulso a progetti di interconnessione di reti energetiche e ad interdipendenze. Nell’altro caso, ai paesi in via di sviluppo verrebbero proposte, all’interno di ogni regione geopolitica, soluzioni tecnologiche ed opzioni energetiche finalizzate a mantenere il paese all’interno di relazioni preferenziali anche in chiave protezionistica.

Ma vorrei aggiungere a questo schema di scenari contrapposti un’altra variabile, molto importante per il lungo periodo: quella che io chiamo “rapporto intergenerazionale” e che riflette il modo in cui i diversi paesi vedono se stessi nel futuro. L’attenzione per gli aspetti intergenerazionali fa sì che un paese tenda a investire in programmi e tecnologie che hanno ritorni o conseguenze in una prospettiva temporale di lungo periodo: in altri termini, una generazione investe per quelle che le sono successive. Un indicatore economico di questo rapporto intergenerazionale potrebbe essere il tasso di interesse di lungo termine: è evidente che un tasso di interesse basso meglio consente investimenti energetici ad esempio in grandi opere infrastrutturali e impianti con tempi di ritorno molto lunghi – in particolare risultano favoriti gli investimenti in impianti di generazione e di uso dell’energia ad alta intensità di capitale. Viceversa, un tasso di interesse elevato fa sì che gli operatori preferiscano investire nel presente e non nel futuro.

Anche in questo caso, le strategie energetiche adottate all’interno dei due diversi scenari geopolitici sarebbero diverse: il primo scenario, combinandosi con bassi tassi di interesse per il lungo termine, meglio terrebbe conto di preoccupazioni intergenerazionali su scala globale, come quelle relative ai cambiamenti climatici dovuti alle emissioni antropogeniche di gas serra. Il secondo, vale a dire lo scenario che ho chiamato “barriere e nuovi confronti”, combinandosi con un elevato tasso di interesse per il lungo periodo, porterebbe ad uno sfruttamento delle risorse energetiche e ambientali del pianeta accelerato e comunque meno attento ai vincoli posti dalla sostenibilità.

Secondo lei, qual è la tendenza che si sta affermando?

Io penso che molti dei lavori fatti in seno alle Nazioni Unite in questi ultimi anni, diciamo dalla conferenza di Rio de Janeiro del 1992 e che hanno portato all’Agenda 21 sullo sviluppo sostenibile e alla Convezione quadro sui cambiamenti climatici, puntano su uno scenario di economia globalizzata e di mercato con un basso tasso di interesse intergenerazionale. I governi dei paesi industrializzati sono stati sollecitati ad adottare strategie in questa direzione, e a fare investimenti con valenza sul lungo periodo. In tal modo, il recupero dei paesi in via di sviluppo sarebbe decisamente più facile, perché diventa possibile un rapporto collaborativo e interattivo tra paesi industrializzati e paesi del terzo mondo, senza che i primi debbano attendersi ritorni immediati. Fermo restando che non è possibile prevedere se il pianeta andrà verso una struttura collaborativa o antagonista, si può dire che la crescente attenzione per il problema intergenerazionale esiste, e che si assiste a una certa convergenza in questa direzione, influenzata dalle politiche governative.

Anche nelle collaborazioni internazionali si tende a preferire e a proporre l’intervento sulla formazione di istituzioni efficienti e stabili nei paesi in via di sviluppo. Questo intervento fa diminuire il rischio e quindi induce un abbassamento dei tassi di interesse di lungo periodo, ne consegue un cambiamento strutturale, migliore delle azioni di aiuto diretto che hanno per oggetto singoli impianti e singole tecnologie. Se vogliamo essere ottimisti, potremmo pensare che dalla situazione attuale, che è una situazione di economia sostanzialmente globalizzata, con tassi di interesse relativamente alti, si potrà passare ad una economia, sempre globalizzata, a tassi di interesse più bassi, e quindi più attenta al futuro di lungo periodo. Ma una nota di cautela è opportuna: occorre uscire da una congiuntura economica, che ha trovato il suo epicentro nell’Asia, difficile e che è stata catalizzata proprio da debolezze di tipo istituzionale e strutturale presenti in diversi paesi.

E per quanto riguarda più strettamente l’energia?

Il processo che si è delineato con la conferenza di Rio de Janeiro, e che è stato ripreso anche da molte organizzazioni internazionali multilaterali, potrebbe consentire ai paesi in via di sviluppo di emergere dal medioevo in cui si trovano. Ricordo che il 25% della popolazione del pianeta utilizza oggi il 75% delle risorse energetiche. Si calcola che più di 2 miliardi di persone non abbiano accesso all’energia elettrica. Vi sono molti paesi in cui una parte considerevole delle popolazione fa ricorso a fonti energetiche non commerciali come il legno, i residui vegetali e altro, e che si trova pertanto nell’impossibilità di intraprendere un percorso di sviluppo, a motivo degli effetti a cascata dovuti alla mancanza di energia elettrica, vale a dire mancanza di telecomunicazioni, carenze di informazione e di formazione. Di qui giocoforza, una esclusione dallo sviluppo.

Il fatto è che non ci si può aspettare, per quanto riguarda l’energia, nessuna rivoluzione in termini di tecnologie. Questo settore è diverso da quello dell’elettronica, dove si susseguono nel giro di poco tempo innovazioni tecnologiche che trasformano i modi di accumulo e di scambio dell’informazione e quindi si modificano anche i modi di diffusione e di trasferimento delle tecnologie. I cambiamenti nel campo dell’energia sono più lenti e graduali. Abbiamo vissuto grandi delusioni: la promessa dell’energia nucleare è venuta meno.

Faccio notare, per inciso, che lo sviluppo delle tecnologie nucleari è avvenuto in un contesto geopolitico di tipo antagonista, bipolare. In una certa misura, l’uso pacifico delle tecnologie nucleari non è stato il frutto di una economia di mercato, ma di una particolare configurazione geopolitica, che spingeva i paesi a dotarsi di fonti energetiche che li rendessero, in prospettiva, indipendenti. In alcuni casi l’impegno nucleare era a doppio fine, pacifico e militare. Questo è quello che ha fatto, per esempio, la Francia, che ha voluto mantenere un ruolo distinto dagli Usa. Oggi l’impegno in programmi nucleari pare un po’ anacronistico, ma di fronte alle sorprese che ci riserva il futuro, potrebbe rivelarsi una scelta molto saggia. In altri casi le tecnologie nucleari venivano diffuse dalle potenze allora egemoni (Stati Uniti e Unione Sovietica) ai paesi alleati per usi pacifici, vincolando gli stessi paesi a non dotarsi di programmi nucleari militari, né a diffondere ulteriormente tecnologie e conoscenze sensibili. In definitiva, lo sviluppo nucleare è nato in un particolare contesto geopolitico, ed è stato da questo favorito. Oggi, difficilmente le tecnologie nucleari riescono a sopravvivere in un’economia di mercato aperta e concorrenziale, dove l’energia nucleare deve competere con combustibili fossili convenzionali a basso costo.

Quindi lei non immagina che una soluzione alla questione energetica possa provenire da nuove tecnologie?

Come dicevo, è difficile immaginare una nuova ondata di tecnologie che modifichi i dati del problema energetico quali si pongono oggi. Per contro, è facile prevedere che le tecnologie dominanti, da qui ai prossimi venti-trent’anni, saranno le tecnologie di utilizzo dei combustibili fossili convenzionali, anche se evolute e perfezionate. A questo gruppo di tecnologie si possono contrapporre le fonti rinnovabili di energia, alcune di queste commerciali a tutti gli effetti, come le fonti idroelettriche, altre sulla soglia della commercializzazione. Ma in tale quadro, trovo abbastanza ironico proporre ai paesi del Sud del mondo di adottare le tecnologie per lo sfruttamento delle nuove risorse rinnovabili in mancanza di altre fonti, perché queste tecnologie, che non resisterebbero nel mercato aperto e concorrenziale di un paese industrializzato, creerebbero effetti distorsivi nell’economia di un paese che voglia aprirsi all’economia di mercato.

A mio parere, non esiste una “tecnologia appropriata” per i paesi in via di sviluppo, se non entro contesti molto limitati. Una tecnologia appropriata e diversa può sopravvivere e riprodursi in uno scenario di confronto geopolitico per blocchi contrapposti spinto all’estremo, dove si ha isolamento e autarchia a livello di paesi singoli o gruppi di paesi. Per contro, in un contesto di mercato aperto, la tecnologia competitiva si trova più o meno nelle stesse condizioni dovunque. Nei mercati aperti e integrati, infatti, vengono premiate le cosiddette reti per l’erogazione di servizi a valore aggiunto, come la rete elettrica, la rete del gas naturale, la rete di distribuzione dei derivati del petrolio: questa è la tendenza che si osserva. Se un tempo si tendeva a investire sulla produzione di energia, oggi si investe sugli usi dell’energia per renderli più efficienti, e si tende a vedere il problema energetico come una rete a cui si deve garantire l’accesso e intorno a cui si devono formare condizioni concorrenziali, anche liberalizzando il servizio e le condizioni di fornitura.

Ma, nell’ottica degli investimenti intergenerazionali da lei citati prima, un investimento su fonti rinnovabili “pulite”, prive di ricadute nocive sull’ambiente, non potrebbe sul lungo periodo rivelarsi vantaggioso?

Sì, è possibile. Ma la traiettoria delle fonti energetiche convenzionali, cioè dei combustibili fossili, è una traiettoria in cui le tecnologie hanno avuto negli ultimi decenni, per usare una metafora biologica, un’evoluzione lineare, ma poche “mutazioni”, pochi salti di qualità. Peraltro se si considera la generazione di energia elettrica, si vede che negli anni ‘50 la fonte dominate era il carbone, poi è stata il petrolio, e oggi è il gas naturale. Le nuove tecnologie incidono sulle economie di scala e sui rendimenti di conversione, le prime si sono ridotte, mentre i secondi sono progressivamente aumentati fino ad avvicinarsi ai limiti termodinamici. Per questo motivo le tecnologie sono migliorate anche nella direzione di una progressiva diminuzione dell’impatto ambientale, e i costi si sono ridotti.

Certo si può pensare che, in tempi non molto lontani, si possano avere nuove soluzione tecnologiche per lo sfruttamento delle fonti rinnovabili, che stabiliscano traiettorie alternative a quella presente. Come anche si può pensare che in un’economia di mercato globalizzata di tipo collaborativo possa riemergere l’opzione nucleare, comunque diversa da quella di oggi. Attualmente, gli investimenti in ricerca e sviluppo sull’energia nucleare sono molto limitati, dunque non si preparano opzioni per il breve termine in questa direzione. Infatti, avendo escluso uno scenario di preoccupazioni intergenerazionali molto spinte, né i governi, né le imprese se la sentono oggi di investire in una risorsa energetica che non riesce come si è detto, in tempi ragionevoli, a diventare competitiva. D’altro lato, in mancanza di efficaci meccanismi di controllo, la diffusione di tecnologie nucleari che troverebbero un doppio uso potrebbe avere effetti destabilizzanti su equilibri geopolitici già di per sé critici.

Dunque, in definitiva, la sua è una visione prudentemente ottimistica?

Posso dire che nell’arco di dieci anni si sono fatti notevoli passi avanti nella direzione di una maggiore consapevolezza dei reali problemi inerenti l’uso dell’energia. Penso soprattutto al fatto che oggi le preoccupazioni di ordine ambientale sono quasi generalmente condivise, mentre fino a pochi anni fa erano prerogativa di pochi, per esempio degli stati del nord Europa e di certe elites intellettuali, peraltro guardate con sospetto. Inoltre, forse anche a motivo dell’allungamento dell’attesa di vita e della coesistenza nelle nostre società di generazioni tra di loro lontane per età, si sta progressivamente diffondendo una visione più ampia in senso temporale e quindi più attenta al futuro che si riflette nella tendenza e previsione di investimenti intergenerazionali anche a favore dell’ambiente. La preoccupazione per il futuro sta diventando sempre più un fatto culturale condiviso, di cui forze politiche e governo ritengo potranno discutere nel corso della ormai prossima Conferenza nazionale sull’energia e sull’ambiente, che si terrà a Roma il 25-28 novembre.

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