La catastrofe avvenuta a Sarno nel maggio ‘98, o i danni provocati in Umbria dall’ultimo terremoto, secondo gli esperti si potevano evitare. L’Italia, infatti, è da millenni un paese ad alto rischio idrogeologico, sismico e vulcanico. A queste debolezze “naturali” vanno aggiunte anche le responsabilità dell’uomo, ovvero lo scempio del territorio con la speculazione edilizia e lo sfruttamento del suolo. Così soltanto negli ultimi 50 anni, frane e alluvioni hanno causato la morte di 3706 persone: il record negativo spetta al Veneto, con 1891 vittime causate da un unico tragico evento, il crollo della diga del Vajont nel 1963. Se si verificassero le stesse condizioni climatiche, le alluvioni di Firenze del 1966, e del Polesine nel 1950 potrebbero ripetersi e causare disastri ben peggiori. I “segreti” di queste catastrofi annunciate e di come si sarebbero potute evitare sono descritti nel libro “Annus horribilis”, recentemente pubblicato da Cuen (pagg. 203, lire 14.000). Galileo ha chiesto all’autore, Mario Tozzi, geologo e ricercatore presso il Consiglio nazionale delle ricerche, di spiegarci le cause di questo “malterritorio”
Dottor Tozzi, la tragedia di Sarno poteva essere evitata?
“Certamente. La zona di Sarno è, dal punto di vista geologico, come un panettone di calcare bianco ricoperto da uno zucchero a velo, che in realtà è la cenere del Vesuvio depositatasi lì nel corso dei millenni. Il problema è che la cenere non si è amalgamata al panettone bianco, e ogni volta che piove più del normale questo tipo di terreno si appesantisce e tende a franare a valle. Un’ulteriore frammentazione della montagna è avvenuta con la costruzione di strade, di piazzole per le case, di acquedotti e oleodotti per lo più inutili. Inoltre le culture secolari di faggi e castagni, importanti perché trattengono il terreno con le loro radici profonde, sono state sostituite con la pianta del nocciolo che ha una radice corta. Tutto questo ha provocato la tragedia”.
Questo significa che in Italia manca una cultura della prevenzione?
“Purtroppo sì. Non occorre essere geologi per capire che, in certe condizioni, alcune aree possono diventare pericolose. Per sapere se una zona è a rischio basta scartabellare negli archivi comunali e vedere quante volte quei territori sono stati interessati da frane, alluvioni o sismi. I terremoti che colpiscono le regioni dell’Italia centrale, per esempio, si ritrovano già in Cicerone. L’unica soluzione è costruire meglio e rinforzare i vecchi edifici. L’ultimo sisma in Umbria e Marche era di media intensità perché non raggiungeva nemmeno una magnitudo 6. Per questo ci sono state poche vittime”.
Nel libro lei parla di catastrofi annunciate. Dove si rischia di più in Italia?
“Una delle zone dove i sismi sono più frequenti è lo stretto di Messina e Reggio Calabria. Proprio lì, all’inizio del secolo, è avvenuto uno dei terremoti più gravi della storia d’Italia. Il numero delle vittime si aggirò tra 80 e 200 mila persone. E se penso che vogliono costruire un ponte che unisca la Sicilia alla Calabria, rimango perplesso. Anche se quella struttura dovesse resistere a un nuovo terribile terremoto, dopo unirebbe due cimiteri. I fondi per il ponte dovrebbero piuttosto essere investiti per ristrutturare in maniera antisismica gli edifici. Purtroppo, da questo punto di vista tutti i comuni della Calabria sono a rischio, così come lo sono Napoli e i suoi dintorni. Le eruzioni del Vesuvio sono pericolosissime, perché non sono caratterizzate da colate di lava, ma da nubi ardenti che arrivano a valle e bruciano qualsiasi cosa, compresi i polmoni degli uomini. Infine, un’altra area a forte rischio vulcanico, e un po’ trascurata, è quella dell’isola di Vulcano, in Sicilia, che è attualmente molto attivo”.
Che cosa possiamo fare per evitare nuove catastrofi?
“Abbiamo una nuova legge sulla difesa del suolo che di fatto obbliga a costruire in alcune zone e non in altre, e mette a disposizione dei sindaci il genio militare per demolire gli edifici che si trovano nelle aree ad alto rischio. Ora bisogna vedere se questa legge sarà applicata. Personalmente sono poco fiducioso. Anche perché negli uffici tecnici delle amministrazioni locali spesso è proprio la figura del geologo a mancare”.