Insidiate dall’inquinamento, sfruttate oltre il dovuto e poi disperse in mille rivoli da acquedotti-colabrodo: le risorse idriche del Belpaese sono allo stremo. Lo ha affermato il Ministro dell’ambiente Edo Ronchi aprendo nei giorni scorsi a Roma i lavori della prima Conferenza Nazionale sulla tutela delle acque. Preoccupato dello stato di salute di fiumi falde e acque marine, che ha definito “critico”, Ronchi ha annunciato l’arrivo di 500 miliardi per avviare la riforma di un sistema di gestione che fa letteralmente acqua da tutte le parti. Ma i soldi non sono tutto. E per far partire la riforma, prevista da un decreto legislativo varato nel maggio scorso, il ministro si è impegnato a dar vita a una regia unica per la tutela ambientale delle acque e per indirizzare i finanziamenti.
Risparmiare, razionalizzare e riciclare sono le parole d’ordine del new deal promosso da Ronchi in sintonia con le politiche della Comunità europea. Non è infatti più possibile continuare a utilizzare l’acqua dolce considerandola una risorsa illimitata: negli ultimi vent’anni in tutto il mondo la disponibilità d’acqua pro capite è diminuita del 40 per cento e un’analoga percentuale della popolazione mondiale non dispone di risorse idriche adeguate. E il problema si avverte anche in Europa, non solo in alcune zone semiaride del Mediterraneo ma anche in alcune comunità del Nord Europa densamente popolate e con alte concentrazioni di industriali.
Per l’Italia poi – un paese intensamente abitato e industrializzato che non gode di grandi risorse idriche – l’acqua è un bene particolarmente prezioso. In Europa siamo il paese che preleva la maggiore quantità di acqua procapite – 980 metri cubi all’anno, il doppio della Grecia e più della Spagna (890) e della Francia (700) – e secondo solo al Belgio nel rapporto tra quantità prelevata e disponibilità (32 per cento). Secondo i dati di un documento presentato da Federgasacqua (una delle associazioni che riuniscono le imprese di servizi idrici ed energetici) alla conferenza, in Italia si consumerebbero circa 50 miliardi di metri cubi di acqua all’anno, dei quali oltre la metà per irrigazione e solo il 14 per cento per usi civili. Ci sono poi da mettere in conto le perdite degli acquedotti, mediamente dell’ordine del 30 per cento, con picchi superiori al 50 per cento.
In pratica, consumiamo più di quanto ci possiamo permettere, senza nemmeno curarci di tutelare le pur esigue risorse di cui disponiamo. Basti pensare che i dati sul monitoraggio dei corpi idrici superficiali (disponibili in modo adeguato solo per circa metà del territorio nazionale) mostrano che il 75-80 per cento di queste acque è fortemente contaminato da composti dell’azoto e dall’inquinamento microbiologico. E ancora: molte falde da cui si attinge acqua potabile rivelano valori al limite della concentrazione massima ammissibile per diversi tipi di inquinanti. Infine, anche il sistema di depurazione italiano lascia molto a desiderare: non solo la maggior parte degli impianti non raggiunge gli stadi più avanzati di depurazione richiesti dalla legge ma si tratta in maggioranza di strutture molto piccole (82% del totale) e nel 40% dei casi, soprattutto al Sud, non sono nemmeno funzionanti.
Insomma, il quadro delle acque che bagnano e solcano il Belpaese, nonché di quelle marine – anch’esse in varia misura degradate per la pressione degli insediamenti umani e industriali, così come delle attività agricole e zootecniche – è piuttosto desolante. E la riforma promossa da Ronchi appare più che mai opportuna. Anche e soprattutto per far piazza pulita di una cultura politica che, sostenuta da istanze produttive ed economiche, per oltre cinquant’anni ha favorito lo sfruttamento delle risorse a scapito della loro tutela. D’altro canto, qualsiasi intervento in questo senso – che si tratti di pianificazione, di risanamento o di prevenzione – non può prescindere da una appropriata conoscenza del reale stato del patrimonio idrico del paese, sia dal punto quantitativo che da quello qualitativo. E su questo fronte il panorama è piuttosto sconfortante: nel primo caso, le informazioni disponibili sono sicuramente obsolete (risalgono alla Conferenza Nazionale sulle Acque del 1971); nel secondo, invece, i dati sono disomogenei e incompleti, riflettendo sia la molteplicità idrogeologica e socioeconomica della realtà italiana che la disomogeneità dei mezzi utilizzati e delle strutture preposte al monitoraggio.