La corsa agli armamenti non è un fenomeno nuovo: l’ultima, ben nota manifestazione di questa ricorrente follia è la proliferazione delle armi nucleari, che però di recente potrebbero aver imboccato la via dell’obsolescenza come le armi chimiche e batteriologiche. Una categoria di armamenti con una storia molto più lunga, che per millenni ha rappresentato la quintessenza del potere militare, quella delle navi da guerra, sembra invece resistere alla sua decadenza.
Le imponenti flotte militari e le grandi battaglie navali sono rimaste rilevanti molto a lungo: dalle tri e quinquiremi di Salamina (480 a.C.) e Azio (31 a.C.), attraverso le grandi armate di vascelli di Lepanto (1571) e Trafalgar (1805), fino all’epoca delle navi di metallo con propulsioni moderne dello Jutland (1916) e del Golfo di Leyte (1944). Ancora alla metà del Novecento una grande potenza si qualificava come tale principalmente per il possesso di un’adeguata forza navale, più o meno come oggi avviene per la sua potenza aerea o nucleare. Rappresentante per antonomasia di questo modo di intendere la storia e la politica resta l’ammiraglio americano Alfred T. Mahan (1840-1914) autore nel 1890 di un libro dall’eloquente titolo The Influence of Sea Power Upon History: 1660- 1783 che ha avuto, tra l’altro, un ruolo centrale nella corsa agli armamenti che ha preceduto lo scoppio della prima guerra mondiale.
Dall’osservazione della storia Mahan aveva tratto la conclusione che i successi inglesi fossero dovuti essenzialmente a un controllo del mare che non poteva essere raggiunto solo con la guerra di corsa, ma che richiedeva la neutralizzazione delle flotte nemiche. E questo imponeva il possesso di forze navali in grado di prevalere in una battaglia decisiva: l’esempio paradigmatico sembrò essere, pochi anni dopo, la battaglia di Tsushima durante la guerra russo-giapponese del 1905. Queste teorie ebbero un’enorme e prolungata influenza in Inghilterra, Francia, Germania e Giappone dove si puntò decisamente sulla costruzione di grandi – e costose – flotte di superficie, sottovalutando in alcuni casi anche l’emergente importanza dell’aeronautica e della guerra sottomarina.
Il corso della prima guerra mondiale e gli eventi successivi, però, hanno progressivamente modificato queste idee. Nella seconda metà dell’Ottocento le navi da guerra erano progressivamente passate dal legno al metallo, e dalle vele al vapore e poi alle turbine. Erano comparse nuove classi di vascelli: ironclads, dreadnoughts, battleships di taglie, corazze e armamenti sempre crescenti, e gli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale avevano visto una vera e propria corsa agli armamenti navali. La prima Dreadnought moderna fu varata dall’Inghilterra nel 1906, e Winston Churchill (per due volte First Lord of the Admiralty nei due periodi precedenti le due guerre mondiali) rende conto dei successivi progressi tecnici in un suggestivo capitolo («The Romance of Design ») del suo libro del 1923 The World Crisis 1911-1918. In particolare egli ricorda non solo la corsa all’aumento delle corazze e del calibro dei cannoni, ma anche il nuovo ruolo del combustibile: navi sempre più grandi e pesanti avevano bisogno di una propulsione che non poteva essere garantita dalle vecchie caldaie a carbone. La fatale, quanto inevitabile, decisione – presa nel 1912 – di passare al petrolio ha inaugurato un problema di approvvigionamenti che, molto ingigantito, ci affligge ancora, e ha segnato l’inizio di un profondo cambiamento nel ruolo geopolitico dei paesi produttori.
Ma lo stesso Churchill, alfiere dello sviluppo delle grandi flotte di superficie, è stato solo pochi anni dopo testimone del loro declino di fronte all’arrivo dei sottomarini e soprattutto dell’aeronautica militare moderna. In pochi minuti stormi di bombardieri giapponesi si dimostrarono in grado di affondare corazzate che erano l’orgoglio della marina britannica: il tono delle pagine di The Second World War (1950) che raccontano la rapida fine della Prince of Wales e della Repulse il 10 dicembre 1941 (solo tre giorni dopo Pearl Harbour) nelle acque di Singapore è molto diverso da quello entusiastico di trent’anni prima. D’altra parte il successo dell’attacco inglese contro la flotta italiana alla fonda nel porto di Taranto (1940), e di quello giapponese contro quella americana a Pearl Harbour (1941) non sono che una conferma di questo radicale cambiamento di prospettiva. Con l’arrivo di una efficace aeronautica militare era terminata l’era della grandi navi da battaglia, e la marina militare ritrovava un suo ruolo solo nei sottomarini e nelle grandi portaerei.
Per quanto ridimensionata, però, la marina militare resta centrale, e anche le potenze emergenti non sono esenti da questo fascino e si preoccupano di recuperare il terreno perduto nei confronti degli altri. Per esempio la Cina si è recentemente contraddistinta per aver affiancato il collaudo del suo nuovo bombardiere stealth J-20 (il 6 gennaio 2011, in non casuale coincidenza con la visita in Cina del Segretario alla Difesa americano Robert Gates una settimana dopo) con le fotografie diffuse pochi mesi dopo dall’agenzia giornalistica Xinhua della sua prima portaerei quasi pronta per l’uso (8 aprile 2011): nonostante tutto sembra proprio che la promozione delle proprie capital ships resti ancora oggi un elemento centrale della propaganda nazionalista.
Le fotografie diffuse mostrano le immagini della portaerei Varyag acquistata incompleta dall’Ucraina nel 1998 (ad un’asta, per 20 milioni di dollari) e ristrutturata nei cantieri di Dalian con il nuovo nome di Shi Lang, e con un varo previsto per ottobre 2011. Una o più altre portaerei sembra che siano anche in costruzione nel porto di Shanghai e il Pentagono ritiene che ve ne possa essere più di una in servizio per il 2020. Il deterrente nucleare cinese (stimato a circa 160 testate) era già stato negli anni scorsi schierato su lanciatori mobili e su sommergibili, e la flotta di circa 60 sottomarini è già la più grande dell’Asia: quelli (6) armati di missili balistici sono anche equipaggiati con silenziosi motori a propulsione nucleare. Anche i propagandati missili balistici anti-navi sembrano avvicinarsi al momento in cui potranno minacciare le grandi portaerei che sono il cuore della presenza americana nel Pacifico. Il messaggio cinese appare chiaro: la sua capacità di deterrenza in difesa dei propri interessi sta crescendo rapidamente; e la marina della People’s Liberation Army è al centro di questa crescita.
Il problema di Taiwan, considerata dalla Cina parte del proprio territorio, ma difesa da un impegno americano, è ovviamente il primo di questi interessi. Alcuni osservatori datano il rinnovato slancio militare cinese proprio dalle crisi della metà degli anni Novanta, quando gli USA spedirono impunemente le loro portaerei nelle acque attorno a Taiwan per difenderla. La Cina è anche preoccupata di essere circondata da una rete di alleanze militari ostili (Corea del Sud, Giappone, Taiwan e Filippine) che potrebbero contenere le sue ambizioni, e in questo quadro è per essa importante limitare la capacità americana di proiettare la propria potenza nel Pacifico occidentale. Al centro della disputa c’è poi anche il Mar Cinese Meridionale, il cui dominio parziale o totale è reclamato dalla Cina e da altre quattro nazioni del sud-est. Sebbene la Cina non abbia esplicitamente dichiarato le proprie pretese territoriali gli osservatori ritengono che esse si basino su una mappa – tracciata al tempo del governo del Kuomintang e accettata dall’attuale governo comunista – che mostra virtualmente l’intero Mar Cinese Meridionale sotto il dominio cinese.
Per il momento l’allarme degli ambienti militari americani resta piuttosto contenuto (vedi le dichiarazioni rilasciate l’8 aprile dal vice ammiraglio David J. Dorsett): nonostante la modernizzazione di una vecchia portaerei russa, le capacità operative cinesi sono ancora considerate limitate. Ma il problema è capire se gli USA resteranno – e se saranno considerati – dominanti come sempre nel Pacifico occidentale. L’ambizione cinese è di render ciò più difficile: un obiettivo ovviamente inaccettabile per gli USA. Gli americani e gli stati vicini (Giappone, Filippine, Vietnam) osservano con preoccupazione i movimenti delle navi cinesi, e i tentativi di mettersi in condizione di operare in un’area nella quale oggi gli americani detengono una supremazia incontrastata diventeranno più decisi e regolari quando la Cina avrà aggiunto la sua portaerei alla flotta.
Per avere un’idea del peso della presenza delle portaerei, peraltro, basta osservare su Wikipedia la lista delle navi in servizio. Le portaerei sono molto dispendiose e solo sette paesi ne detengono un totale di 20 unità. Oltre gli USA con 11 portaerei fino a 100.000 tonnellate di dislocamento, Brasile, Spagna, Thailandia, Francia, Inghilterra, India e Russia ne hanno una ciascuno di dislocamento compreso fra le 12.000 e le 67.000 tonnellate, mentre l’Italia ne ha due rispettivamente di 14.000 e 27.000 tonnellate. La cinese Varyag ha invece un dislocamento di circa 50.000 tonnellate. Come termine di paragone la corazzata Yamato della Marina Imperiale Giapponese – la più grande mai costruita e affondata il 7 aprile del 1945 – aveva un dislocamento di 65.000 tonnellate. Mezzi analoghi per costi e dimensioni sono anche le navi d’assalto anfibio (una ventina di unità in servizio, dieci delle quali americane e nessuna italiana o cinese) e le più piccole unità da trasporto anfibio (55 unità in servizio, 21 americane, una cinese e quattro italiane). Quanto ai costi, l’ultima super portaerei americana della classe Nimitz (la USS George H.W. Bush in servizio da gennaio 2009) è costata circa 6,2 miliardi di dollari, mentre l’italiana Cavour in servizio dal 2008 è costata circa 1,3 miliardi di euro (circa 1,8 miliardi di dollari).
Insomma, nonostante il ridimensionamento dai tempi dell’ammiraglio Mahan, l’importanza delle marine militari resta enorme e ancora oggi anche potenze emergenti come la Cina o stati con limitate ambizioni globali come l’Italia non disdegnano di dedicare parti consistenti dei loro investimenti a questo settore. Si ha proprio l’impressione di essere ancora abbacinati dalla brillante retorica dannunziana (1893) della “piastra ardente del ponte che il fremito scote”.
Fonte: Sapere di ottobre
L’articolo contiene una imprecisione: nel caso di navi da guerra, il tonnellaggio non misura la stazza ma il dislocamento.
Il dislocamento, e’, di fatto, il peso della nave.
La tonnellata di stazza e’ una misura di volume (circa 3 metri cubi) usata per le navi mercantili.
Gentile lettore, grazie del suggerimento. Abbiamo provveduto a correggere il testo
la redazione