Non solo cervelli, dall’Italia fuggono anche i brevetti. Spesso infatti i ricercatori “costretti” a svolgere all’estero le loro ricerche decidono di intraprendere anche tutto il percorso di trasferimento tecnologico là dove hanno portato a termine il loro lavoro. E così l’Italia rinuncia almeno a un miliardo di euro all’anno, la cifra che rendono ogni anno i 243 brevetti prodotti dai nostri migliori 50 ricercatori ai Paesi dove sono andati a lavorare. I dati sono stati commentati a Catania in occasione del convegno “Il valore della ricerca, la creazione di opportunità: pubblico e privato uniti per la ricerca made in Italy”, e provengono da OCSE, ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca) e I-Com (Istituto per la Competitività).
Anche i ricercatori che rimangono, poi, non sono particolarmente propensi a trasferire sul mercato ciò che hanno studiato e scoperto. Benché i nostri ricercatori producano studi scientifici che per quantità e qualità sono superiori alla media OCSE (siamo all’ottavo posto nel mondo), una minima quantità di questi si traduce in brevetti, produzione industriale e quindi ricchezza: nove volte meno che in Danimarca, sette volte meno che in Usa, quattro volte meno che in Germania, Francia e Spagna. “Due i fattori che determinano questo scenario: da una parte le nostre imprese, che sono medio-piccole, e non hanno quindi il capitale necessario per investire nel trasferimento tecnologico; dall’altra i ricercatori italiani per lungo tempo hanno avuto un atteggiamento di ritrosia nei confronti del mercato”, spiega Andrea Lenzi, presidente del Consiglio Universitario Nazionale.
Ma le cose stanno cambiando. Ne è un esempio la collaborazione pubblico privato che ha portato alla realizzazione del Laboratorio di Ricerche Biomediche di Catania, che vede impegnate l’Università di Catania, l’Università La Sapienza di Roma ed Eli Lilly, e che per il primo progetto portato avanti può contare sui fondi europei del PON (Programma Operativo Nazionale). A due anni dalla sua inaugurazione, il Laboratorio ha prodotto un primo importante risultato: il deposito di un brevetto per un un sistema di valutazione dell’osteoporosi. “Si tratta di un processo diagnostico da usare una volta eseguita la diagnosi per tenere sotto controllo l’andamento della malattia”, spiega Silvia Migliaccio, Specialista in Endocrinologia e Malattie Metaboliche presso l’ateneo romano e responsabile del Laboratorio di Catania. “Abbiamo individuato dei marcatori biologici del metabolismo osseo che possiamo misurare grazie a un semplice esame del sangue”. Il brevetto è stato depositato dall’Università Sapienza e a breve verrà presentato anche a livello internazionale; a quel punto partirà la caccia a un finanziatore che voglia investire nel kit.
Nei due anni di attività il Laboratorio di Ricerche Biomediche di Catania ha significato un posto di lavoro per 5 ricercatori, a cui si sono aggiunti altri giovani scienziati che hanno collaborato con il centro siciliano. Finito il primo progetto, le strutture realizzate grazie al contributo di Eli Lilly rimangono all’Università di Catania, che ora dovrà cercare nuovi progetti per non sprecare il patrimonio di know how creato in questi mesi.