L’inventario è inquietante: 684 crani e 27 resti scheletrici umani, 183 cervelli umani, 58 crani e 48 resti scheletrici animali, 502 corpi di reato utilizzati per compiere delitti più o meno cruenti, 42 ferri di contenzione, un centinaio di maschere mortuarie, 175 manufatti e 475 disegni di alienati, migliaia di fotografie di criminali, folli e prostitute, folcloristici abiti di briganti, persino tre modelli di piante carnivore. Il Museo di antropologia criminale di Torino nasce come raccolta di oggetti che Cesare Lombroso (1853-1909) accumulò lungo il corso di tutta la sua vita, custodendoli in un primo tempo nello spazio privato della propria abitazione. Ora questo eterogeneo accumulo, proseguito da Mario Carrara (1866-1937), successore di Lombroso sulla cattedra dell’Università di Torino, dal 26 novembre 2009 è un museo aperto al pubblico, accanto a quello di Anatomia, in corso Massimo d’Azeglio 52. C’è anche lo scheletro di Lombroso, che egli, spegnendosi un secolo fa, volle lasciare alla scienza, così come il suo volto conservato sotto formalina (non esposto).
Raccolta, non collezione. La scelta della parola è motivata. Collezione rimanda a criteri selettivi espliciti e prestabiliti. Raccolta rende l’idea del mettere insieme preliminare alla collezione. La figlia Gina nella biografia del padre descrive bene questa attitudine: “Lombroso era un raccoglitore nato – mentre camminava, mentre parlava, mentre discorreva; in città, in campagna, nei tribunali, in carcere, in viaggio, stava sempre osservando qualcosa che nessuno vedeva, raccogliendo così o comperando un cumulo di curiosità, di cui lì per lì nessuno, e neanche egli stesso, qualche volta avrebbe saputo dire il valore”.
Potremmo aggiungere che talvolta la raccolta di questi materiali, spesso macabri, passò anche per appropriazioni legalmente condannabili, come confessa lo stesso Lombroso: “Il primo nucleo della collezione fu formato dall’esercito, avendovi vissuto parecchi anni come medico militare, prima del ’59 e poi nel ’66, ebbi campo di misurare craniologicamente migliaia di soldati italiani e raccoglierne molti crani e cervelli. Questa collezione venne mano a mano crescendo, con i modi anche meno legittimi, dallo spolio di vecchi sepolcreti abbandonati: sardi, valtellinesi, lucchesi, fatto da me, dai miei studenti e amici di Torino e di Pavia”. Nata per istinto, la raccolta diventa dapprima materiale di studio con il metodo tipico della scienza positiva (misura, statistica, classificazione), dà origine a teorie scientifiche e infine, con il passare degli anni, si trasforma in una documentazione che ha soprattutto il compito di confermare e rendere indubitabili le teorie lombrosiane, con un percorso che grossolanamente va dal dato empirico al dogma. È questo l’atteggiamento, persino tenero, che Lombroso, ormai vecchio, manifesta nei confronti dei suoi tristi reperti: “Come il veterano ricorda, accanto al caminetto, il rumor della battaglia, (le grida dei feriti, le convulsioni degli agonizzanti,) così io ora al declinar della vita ripasso qui in rivista con calmo piacere (quelle battaglie non men faticose per la vittoria della mia scuola, e) quei poveri trofei raccolti dal 1859 in poi, pezzo per pezzo, prima in una camera da studente, spauracchio continuo delle padrone di casa, poi in una specie di granaio che fungeva da laboratorio nella via Po di Torino, finalmente nel 1899 nelle ampie sale del Museo psichiatrico criminale dell’Università di Torino”.
Si comprende, dunque, perché il Museo di antropologia criminale sia a ragione più noto come “Museo Lombroso” in quanto così legato alla persona che lo mise insieme, tanto che gli apporti venuti ad opera di Mario Carrara, ancorché tardivi, non rappresentano alcuna frattura rispetto alla parte originale della raccolta. E si comprende come, a distanza di oltre un secolo, catalogare una così indistinta galassia di “pezzi” per offrirne una lettura ragionata al pubblico abbia posto numerose e delicate questioni. La prima si riferisce all’immaginario che molti reperti evocano e alle pulsioni che possono essere sollecitate quando si parla di delitti, follia, colpe e pene. Insomma di devianza nelle sue diverse manifestazioni (criminalità, asocialità, malattia mentale, demenza, genialità).
Premesso che è molto difficile definire la devianza (devianza rispetto a quale norma?), è noto che l’interesse popolare per le manifestazioni della devianza corrisponde talvolta a una dialettica attrazione/repulsione che nasce da profondità inconsce e inconfessabili. Non si doveva e non si voleva fare un “museo degli orrori” perché non di questo si tratta e certo non queste erano le idee ispiratrici di chi ha raccolto il variegato materiale espositivo. Inoltre non si doveva dimenticare che gli oggetti in questione sono resti umani (biologici o esistenziali, la cosa non cambia) e che di conseguenza vanno trattati con il rispetto al quale rimanda tale dignità. Di qui la decisione di esporre solo un piccolo campione dei reperti anatomici (per esempio il cranio del brigante Villella).
Una seconda questione riguardava il linguaggio da adottare. Il Museo Lombroso è essenzialmente un museo di conservazione ed esposizione: i suoi oggetti sono i veri protagonisti, e spesso sono dotati di un forte potere suggestivo anche al di là di ogni sospetto di morbosità nello sguardo del visitatore. Nonostante ciò, si è voluto optare per una blanda interattività e una cauta spettacolarizzazione a fini divulgativi.
La linea comunicativa del “toccare per capire”, ormai adottata quasi ovunque nei musei scientifici, non era applicabile. Ma qualche aspetto interattivo si è voluto introdurre almeno invitando il visitatore, in alcune postazioni, a “interrogare” il museo mettendo in azione specifici dispositivi. Tutte le volte in cui è stato opportuno, si è data la parola al protagonista (Lombroso, ma anche i “devianti” da lui studiati) come primo dato di documentazione. E in un paio di casi si è fatto ricorso a soluzioni teatrali: il museo si apre con un dialogo filmato che introduce nel clima del tardo positivismo e più avanti, ormai verso la fine del percorso, con una operazione forse un po’ troppo ambiziosa e disinvolta, Lombroso in prima persona racconta e giudica se stesso.
Fondamentale è sembrato offrire al visitatore il contesto storico del museo, dargli nel modo più neutrale possibile elementi di valutazione, mostrare i limiti, le illusioni e gli errori di Lombroso e più in generale della scienza positivista di cui fu illustre esponente, senza però dimenticare che molti problemi affrontati da quei ricercatori (che cos’è un uomo normale, chi è il criminale, chi è il malato di mente, chi è il genio, siamo liberi o condizionati dalla genetica e dall’ambiente?) rimangono quanto mai attuali: stesse domande con risposte diverse, stesso rischio di errore. In particolare, il parallelismo tra i problemi di un secolo fa e quelli di oggi è messo in evidenza nel corridoio che conclude il percorso del museo, dove il messaggio epistemologico dovrebbe essere che, rispetto al tempo della scienza positivista, oggi si è dissolta la certezza che sia possibile raggiungere per questi e altri problemi una soluzione definitiva. Con il senno di poi, si può dire che Lombroso sbagliò quasi tutto: nell’identificare la causa della pellagra, nella teoria dell’atavismo e del “delinquente nato”, nella concezione della razza e del genere femminile, nel teorizzare l’uomo di genio, nel dare fiducia ai fenomeni paranormali e a una fattucchiera come Eusapia Palladino. La lezione finale però è che se molte idee del tempo di Lombroso sono superate, altre sopravvivono in forme diverse ma pur sempre “storiche”.
Così il Museo Lombroso è diventato un meta-museo. Cioè il museo di se stesso. A conferire tale prospettiva, che comporta, per così dire, una speciale “distanza del punto di vista”, è l’aver messo in rilievo come il Museo Lombroso sia un viaggio nel tempo tre volte “storico”: 1) perché conserva migliaia di oggetti riuniti da uno scienziato che, nel bene e nel male, è ormai parte della storia della scienza; 2) perché di questo scienziato famoso e controverso racconta la vita e l’opera offrendo dati che ciascun visitatore potrà utilizzare per formare la propria opinione; 3) perché rappresenta un’idea di museo maturata quando la Scienza prometteva di rispondere a tutte le domande e di traghettare l’umanità verso un mondo acriticamente migliore.
Nella prospettiva storica si coglie oggi il messaggio più segreto del Museo Lombroso, del tutto inimmaginabile per il suo fondatore. Perché se questo non vuole essere e non è un “museo degli orrori”, è bensì vero che per certi verso è un “museo degli errori”, o meglio un museo che ci ricorda come anche la scienza, se non vuole essere dogmatica, si realizzi sempre all’interno di una interpretazione storica e personale, in una sorta di ermeneutica che non è poi troppo lontana da quella a cui siamo abituati nella ricerca storica, filosofica e letteraria.