È la pietra filosofale cercata da sempre dagli oversize che non vogliono rinunciare ai piaceri della tavola. Una pillolina che d’incanto faccia svanire i chili di troppo, senza sforzi e senza rinunce. Nonostante le apparenze, non è uno slogan in stile Wanna Marchi, ma la potenziale applicazione di uno studio appena pubblicato su Nature Medicine dagli scienziati del Salk Institute for Biological Studies, coordinati da Ronald Evans. I ricercatori, infatti, hanno sviluppato un nuovo tipo di farmaco – una pillolina, per l’appunto – in grado di ingannare l’organismo, dando l’illusione di aver consumato calorie e innescando quindi la bruciatura dei grassi. Il composto sintetizzato dagli scienziati, sperimentato su topi obesi, si è mostrato efficace nell’arresto dell’aumento di peso, nell’abbassamento del colesterolo e nel controllo degli zuccheri nel sangue.
Il farmaco si chiama fexaramina e, a differenza delle altre pillole dietetiche attualmente disponibili – tra cui i soppressori dell’appetito e quelle a base di caffeina – non si immette nel flusso sanguigno, ma agisce direttamente nell’intestino, il che, secondo gli autori della ricerca, causa molti meno effetti collaterali.“La pillola è come un pranzo immaginario”, spiega a Wired.it Raffaella Buzzetti, docente di endocrinologia alla Sapienza Università di Roma e direttore dell’Unità Operativa Complessa di diabetologia all’Ospedale Santa Maria Goretti di Latina, non coinvolta nello studio. “Invia gli stessi segnali normalmente inviati dal corpo quando si mangia, cosicché l’organismo inizia a liberare spazio per immagazzinare il cibo in arrivo. Si mettono in moto, in sostanza, tutti i meccanismi metabolici post-prandiali”.
La pillola messa a punto dall’équipe di Evans agisce attivando il cosiddetto recettore farnesoide X (Fxr), una proteina che regola il rilascio di bile da parte del fegato, aiuta la digestione e immagazzina grassi e zuccheri. In oltre vent’anni di studi, Evans e colleghi hanno mostrato che il corpo umano inizia a produrre Fxr appena si comincia a mangiare, per preparare l’organismo al cibo in arrivo. E in effetti diverse aziende farmaceutiche avevano già sviluppato composti in grado di attivare la produzione del recettore: il problema è che non si era mai riusciti a limitare il rilascio dell’enzima nel solo apparato digerente, il che causava diversi effetti collaterali. I ricercatori del Salk Institute sono riusciti ad aggirare il problema: “Abbiamo scoperto che somministrando la feraxamina per via orale, agisce soltanto nell’intestino”, spiega a Wired.it Michael Downes, un altro autore dell’articolo. “Il principio attivo non entra in circolazione del sangue, per cui non viene trasportato in tutto il corpo: questo riduce drasticamente gli effetti collaterali e rende il farmaco più efficace nell’arrestare l’aumento di peso. Quando si mangia, il fegato rilascia acidi biliari nell’intestino, che inducono la produzione di proteine le quali, una volta rilasciate nel sangue, accelerano il metabolismo per bruciare grassi e calorie. La fexaramina è una sostanza chimica non biliare che circola solo nell’intestino e fa pensare al corpo che si sta mangiando, senza che per questo si perda l’appetito”.
Somministrando quotidianamente la molecola a topi obesi per cinque settimane, i ricercatori hanno infatti notato perdita di peso, perdita di grasso e abbassamento dei livelli di zucchero e colesterolo nel sangue rispetto ai topi non trattati con il farmaco. Inoltre, i topi hanno mostrato anche un aumento della temperatura corporea, segno che il metabolismo era più attivo, e la trasformazione di tessuto adiposo bianco in tessuto adiposo bruno, più sano e in grado di bruciare energia. Il trattamento, infine ha cambiato la flora batterica residente nell’intestino dei topi, anche se non è ancora chiaro cosa comporti tale cambiamento. “Il risultato è molto interessante”, ci spiega ancora Buzzetti, “perché finora non si era ancora capito fino a che punto fossero importanti le conseguenze metaboliche dell’attivazione del recettore. Inoltre, il farmaco non agisce direttamente sul sistema nervoso centrale, come i soppressori dell’appetito comunemente usati. Non si tratta, dunque, di un anoressizzante. La diminuzione dell’appetito, se sopravviene, è semplicemente una conseguenza indiretta del trattamento”.
Secondo Evans, il fatto che la fexaramina funzioni meglio attivando l’Fxr nel solo intestino rispetto che in tutto il corpo ha a che fare con l’“ordine naturale” della risposta dell’organismo all’assunzione di cibo: “Si tratta”, spiega lo scienziato, “di una specie di staffetta. Se si dice a tutti i corridori di partire nello stesso momento, non si riuscirà mai a passare il testimone. Abbiamo imparato, invece, ad attivare il primo corridore [cioè l’intestino] in modo che il resto degli eventi accada secondo l’ordine naturale”.
Lo scopo dei ricercatori, ora, è passare a test clinici sugli esseri umani, per provare l’efficacia del farmaco nel trattamento dell’obesità e dei disturbi del metabolismo. Nonostante i risultati di questo primo esperimento, infatti, è bene notare che è necessario attendere trial clinici più ampi per capire il vero ruolo giocato dalla sostanza a livello molecolare. È già successo, tra l’altro, che farmaci promettenti sui topi si rivelassero molto meno efficaci negli esseri umani. Per questo, alcuni ricercatori si dicono scettici sulla scoperta: “Gli autori del lavoro”, racconta al Guardian Stephen O’Raihilly, direttore del Centro di disturbi metabolici alla Cambridge University, “mostrano che una particolare sostanza riesce a ingannare le cellule dell’intestino. È un’osservazione interessante, ma solo una modesta percentuale di farmaci che sembrano funzionare su modelli murini riescono poi ad arrivare sui banconi delle farmacie”. A questo proposito, Downes spiega che le prospettive sono buone, dal momento che “il meccanismo d’azione del farmaco è conservato negli esseri umani”, anche se ammette che “il problema di passare agli esseri umani è naturalmente sconosciuto al livello a cui siamo, ed è una questione delicata perché è difficile prevedere cosa succederà”. Buzzetti, dal canto suo, fa comunque notare che l’entusiasmo suscitato dallo studio dipende dal fatto che il recettore attivato nei topi è presente anche nell’essere umano, il che fa sperare in una risposta metabolica simile.
Altro punto spinoso: cosa succedere quando si smette la terapia? “Un paziente che non cambia il proprio stile di vita”, ci dice ancora Downes, “riguadagnerà il peso perso durante il trattamento. Tutti i farmaci anti-obesità devono essere usati insieme a dieta ed esercizio fisico, per migliorare globalmente qualità e stile di vita. Questo farmaco aiuterà le persone a raggiungere questo obiettivo”. Anche Buzzetti è delllo stesso parere:“È la questione più dolente di tutti i trattamenti anti-obesità”, commenta. “Una volta sospesa la terapia, il paziente rischia di tornare ad accumulare peso. Il punto fondamentale è che ogni trattamento deve essere accompagnato da un cambio di stile di vita e di forma mentis. In ogni caso, il fatto che un paziente veda un risultato tangibile è positivo dal punto di vista psicologico e può incentivare l’adozione di uno stile di vita più sano anche dopo la fine del trattamento”.
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