La questione della sperimentazione animale

La questione della sperimentazione animale come tema di rilevanza etica e di conflitto nella società data da lungo tempo, specialmente negli ambienti anglosassoni, a cultura protestante. Nel nostro paese esso ha assunto rilevanza in tempi più recenti, anche sulla spinta della maggiore integrazione tra culture derivante dalla realizzazione dell’Unione Europea. Fu, infatti, a seguito delle pressioni dei movimenti ambientalisti rappresentati nell’assemblea di Bruxelles che l’Europa decise nel 1986 di regolamentare questo settore emanando una direttiva al riguardo (1).


Il modello delle 3R

Vale la pena descrivere brevemente gli eventi che a partire dalla metà del secolo scorso hanno via via dotato di rilevanza più ampia questo tema e prospettato possibilità di soluzioni condivise, anche se non definitive. Da sempre, la comunità scientifica difende strenuamente la sperimentazione animale come modello ideale per lo studio degli organismi complessi e delle interazioni tra questi e l’ambiente circostante. Purtuttavia, all’interno della stessa comunità scientifica ci si è preoccupati del benessere degli animali da laboratorio, in quanto una sperimentazione svolta su esemplari in condizioni di sofferenza fornirebbe informazioni inaffidabili. Su questo aspetto fondamentale per la ricerca scientifica, ma anche in base a motivazioni etiche, a partire dagli anni Trenta in Inghilterra è impegnata la UFAW (Universities Federation for Animal Welfare). Il suo fondatore, Charles Hume, propose, fin dal 1954, di effettuare uno studio scientifico sulla sperimentazione animale. Fu al convegno annuale di questa società, il 7 maggio del 1957, che William Russell presentò per la prima volta il principio delle 3R. Questo principio fu ulteriormente elaborato nel libro The Principles of Humane Experimental technique pubblicato nel 1959 da Russell e Rex Burch [1].
La prima tappa dello studio consistette nell’acquisizione dei dati sul numero di animali e sulle specie usati per vari tipi di esperimenti. Questa operazione costituì la base per promuovere un programma di procedure per una sperimentazione più “benevola/compassionevole”. Questo programma fu detto delle 3R in riferimento al trinomio “Replacement, Reduction and Refinement”, con il quale si intende rispettivamente: la sostituzione di animali senzienti con specie inferiori o altro materiale; la riduzione del numero degli animali alla quantità minima necessaria per ottenere dei dati scientificamente accettabili; la riduzione della sofferenza prodotta negli animali da procedure disumane.

Il libro di Russell e Burch era indirizzato eminentemente alla comunità scientifica, che in effetti da quel momento pose una diversa attenzione al problema. Tuttavia, l’impulso ad affrontare il tema della sperimentazione animale in senso più ampio giunse nei successivi anni Sessanta-Settanta, caratterizzati dalla contestazione delle istituzioni consolidate, inclusa la scienza. L’esigenza immediata di maggiore democrazia, uguaglianza e giustizia, che diffuse nella società un richiamo a un maggiore equilibrio tra la specie umana e l’ambiente, portò a includere gli animali in un senso morale più ampio, in cui al tradizionale antropocentrismo faceva da contrappeso un maggiore senso di responsabilità nei confronti del mondo in cui viviamo.
Risale a questi anni l’uso del termine “alternativa” per indicare una opzione sostitutiva di un sistema dato, e non solo una possibilità in più. Non meraviglia dunque che nel 1978 David Smyth riproponesse il modello delle 3R in un libro intitolato Alternatives to animal experiments [2]. Questa dizione è decisamente ambigua perché fa pensare alla possibilità immediata di abolizione della sperimentazione animale, cosa che, di fatto, il modello delle 3R non propone. Infatti, la definizione di modelli alternativi alla sperimentazione animale suscitò, e suscita ancora adesso, una grande aspettativa nella società e tra i movimenti animalisti ma, al contempo, grande allarme nella comunità scientifica.
La direttiva della CEE fu recepita in Italia con sei anni di ritardo attraverso il Dl 116 del 1992, e la comunità scientifica si affrettò a specificare che al massimo si trattava di metodi complementari o aggiuntivi e a lanciare lo slogan in vivo veritas.

I progressi della scienza

Non solo la società ma anche la scienza ha mosso dei passi avanti dagli anni in cui il modello delle 3R fu proposto. Basti pensare che negli anni Cinquanta le colture di cellule erano ancora nella fase di sviluppo e la ricerca era incentrata sul perfezionamento di questo modello sperimentale piuttosto che sul suo impiego. Solamente negli anni successivi il suo uso si diffuse in tutti i campi della biomedicina, ed è stato grazie a esso che si sono registrati i più interessanti avanzamenti nella conoscenza dei meccanismi cellulari e molecolari alla base di processi fisiologici e patologici. Inoltre, negli stessi anni in cui si iniziava a percorrere questa nuova strada, l’informatica apriva orizzonti e possibilità impreviste all’elaborazione di dati, alla costruzione di modelli, alla verifica teorica di ipotesi. La tecnologia associata a queste nuove conoscenze si è andata evolvendo molto rapidamente, spinta anche dalle esigenze di mercato. 

La comunità scientifica, dunque, ha oggi a disposizione possibilità estremamente ampie di studio che le consentono di abbandonare vecchi approcci per nuove sperimentazioni.
Per rimanere nel campo delle alternative alla sperimentazione animale, le colture cellulari, se pure sono un modello molto semplificato rispetto alla complessità dell’organismo in toto, offrono tuttavia la possibilità di effettuare ricerche direttamente sulla nostra specie. E’ ormai possibile mantenere, in coltura, cellule umane derivate da diversi organi e tessuti e in grado di conservare in vitro funzioni estremamente specializzate. Viene meno, dunque, il problema dell’estrapolazione da specie a specie visto che anche gli animali più vicini alla specie umana nella scala evolutiva presentano notevoli differenze fisiologiche.

Le colture di cellule, in particolare di quelle umane, potrebbero dunque essere una concreta alternativa alla sperimentazione animale. Nuovi problemi però si sono affacciati all’orizzonte con la creazione di animali transgenici, portatori di malattie genetiche che nelle specie animali non sono normalmente presenti. In altri casi, per capire il ruolo che un gene gioca nella complessità di un dato organismo, si producono i cosiddetti animali knock-out. Di essi si osservano eventuali patologie o disfunzioni.  La produzione e l’uso di tali animali sono in crescita e le finalità di queste ricerche implicano, come è evidente, aspetti di sofferenza grave. Inoltre, per ottenere un animale transgenico da studiare è necessario produrne in gran numero poiché solo una minima parte di essi sopravvive ai diversi stadi di sviluppo. Gli aspetti etici dunque ritornano di prepotenza alla ribalta.

La tossicologia

E’ interessante, per inquadrare bene la tematica della sperimentazione animale e delle possibili alternative, prendere in esame quanto avvenuto in una disciplina che bene rappresenta una serie di contraddizioni: la tossicologia. In questo ambito, infatti, si opera spesso in stretta connessione con le normative internazionali che regolamentano l’immissione sul mercato di nuovi prodotti e che prevedono la sperimentazione animale a fini di sicurezza. Non è un caso che questa sia la disciplina prevalentemente messa sotto accusa dai movimenti animalisti, che contestano l’utilità di queste sperimentazioni. 

Se i sistemi in vitro sono molto lontani dalla complessità dell’organismo di un mammifero, è pur vero che gli studi più recenti mostrano che gli altri mammiferi, pur avendo un DNA simile al nostro, si differenziano molto per funzioni biochimiche e molecolari. Sul versante etologico, inoltre, molte conoscenze si sono acquisite sulla capacità di percepire la sofferenza e sulla qualità e livello di relazione che i mammiferi (e forse non solo!) sono in grado di stabilire. I due argomenti esposti giocano a favore dell’abolizione della sperimentazione animale, in quanto indeboliscono l’attendibilità scientifica e rafforzano la responsabilità etica. D’altra parte i dati ottenuti dalla sperimentazione animale hanno richiesto sempre molta cautela nella loro trasposizione alla specie umana.

E qui incontriamo il problema di capire, appunto, qual è il rischio per la nostra specie derivante dalla esposizione, intenzionale o non, a determinate sostanze. La valutazione del rischio, secondo uno dei maggiori esperti [3,4], non è ancora uscita dalla sua infanzia e più che una scienza si può considerare un’arte. Essa, infatti, sulla base di dati ottenuti attraverso la sperimentazione animale, cerca di creare dei modelli validi per l’essere umano per una data sostanza a una determinata esposizione. I modelli sono matematici e di carattere probabilistico, e ciascuno prende le mosse da una gamma precisa di assunzioni. Questi studi, dunque, sono ben lungi dal fornire certezze ma permettono di ottenere un quadro generale di riferimento, nell’ambito del quale si valuta se vale la pena correre o no un certo rischio. Un esempio per tutti: la saccarina, la cui dose teoricamente sicura può variare di un fattore 1.000 a seconda del modello matematico prescelto e delle sue premesse. La valutazione del rischio aiuta tuttavia a effettuare alcune scelte di carattere eminentemente politico.
E’ interessante notare che Torbjorn Malmfors e Hilde Rosing [5], esperti del settore, hanno suggerito di usare il termine inglese RISK (rischio) come acronimo di Replace Incomplete Scientific Knowledge, che sta proprio a indicare il ruolo che svolge questo approccio.

La tossicologia, per i sui vincoli con la legislazione, è stata anche l’ultima tra le discipline biomediche ad adottare le innovazioni prodotte sia in termini di modelli di studio che in termini di tecnologie. Questo ritardo è stato determinato anche dalla mentalità conservatrice del relativo ambiente accademico, la quale ha fatto sì che solo negli anni Ottanta-Novanta si sia posta attenzione agli approcci cellulari e molecolari [6]. Questi metodi, come si è detto, non solo consentono di lavorare sulla nostra specie, ma  anche di capire in dettaglio i meccanismi di azione che sono alla base di certi effetti tossici o patologici. Fornendo elementi più fondati di spiegazione di alcuni esiti, aprono anche alla possibilità di prevenzione e di riduzione del rischio mediante lo studio di marcatori di sensibilità, di esposizione e di danno precoce. Nel 1993 sulla rivista Science [7], Eliot Marshall scriveva: «Invece di studiare gli animali in condizione di massimo stress in seguito alla somministrazione di dosi di composti tossici quasi letali, i tossicologi potrebbero impiegare più tempo a osservare i processi biologici più da vicino di quanto si faccia normalmente, sforzandosi di comprendere i meccanismi biologici alla base del danno» (2).  A distanza di alcuni anni, nel 2000, in apertura di un convegno sulla tossicologia del nuovo millennio organizzato dalla New York Academy of Sciences, Robert J. Isfort e Joshua Lederberg [8] hanno indicato quello che, ormai, è il percorso di ricerca della tossicologia: «L’applicazione delle moderne tecnologie permette di comprendere in maniera più approfondita e dettagliata l’effetto tossico convergente e sottostante degli agenti, grazie all’uso di tecnologie molecolari, cellulari, informatiche piuttosto che al tradizionale approccio alla tossicologia basato sugli animali e sulle case-history» (3). 

In questo campo le colture cellulari risultano di particolare interesse, in quanto, oltre a consentire lo studio sulla nostra specie, offrono diversi vantaggi sia dal punto di vista scientifico che da quello economico [9]. In particolare, permettono di studiare meccanismi di azione a livello cellulare e molecolare e di identificare gli effetti precoci delle sostanze e la reversibilità degli stessi; inoltre, sono facilmente standardizzabili (e quindi garantiscono risultati riproducibili) e consentono di allestire il numero di campioni necessario per la significatività statistica dei risultati; ancora, le colture cellulari, a regime, hanno minor costo della sperimentazione animale e offrono informazioni utili in tempi più brevi.

E’ evidente che questi modelli offrono anche un vantaggio di ordine etico,  sostituendo la sperimentazione animale in test preliminari destinati a valutare se determinate sostanze siano tossiche, a classificarle (in caso positivo) rispetto a sostanze di riferimento, a stabilire priorità rispetto a futuri più approfonditi studi.
Non va, infine, dimenticata tutta la modellistica informatica che concerne  molecole e funzioni (basata sull’accumulo delle conoscenze ottenute in vivo in passato) nonché i nuovi approcci offerti dalle conoscenze e dalle tecniche nate dal Progetto Genoma [10].

Il progetto AnimAlSee

Nel 2002 la Commissione Europea ha finanziato un progetto di bioetica nell’area “Qualità della vita” dal titolo Animal Alternatives: Scientific and Ethical Evaluation (Anim.Al.See). L’idea di questo progetto era nata dalla constatazione che, mentre i contesti sociali erano fortemente cambiati e tecnica e scienza erano velocemente progrediti, la riflessione filosofica, pur registrando una serie di studi recenti, non sembrava aver accompagnato l’evoluzione che si era avuta nei contesti summenzionati. La discussione sulle alternative alla sperimentazione animale sembrava paralizzata e, soprattutto, vedeva contrapposti scienziati e movimenti animalisti, entrambi su posizioni praticamente immutate negli ultimi trent’anni.
Il progetto ha dunque preso in esame, in un approccio multidisciplinare (biologi, etologi, filosofi) il modello delle 3R per aggiornarlo a partire da alcune considerazioni.

La prima fra tutte è che questo modello è stato elaborato e indirizzato dagli autori  alla comunità scientifica: quindi è rimasto poco o per nulla conosciuto e discusso nella società e tra i movimenti [11, 12].
La seconda considerazione è che ogni aggiornamento di questo modello non può prescindere dalla osservazione che nella società, accanto ad aspettative diffuse, si sono anche manifestate molte diffidenze nei confronti della scienza.
La terza considerazione riguarda la scarsa cultura filosofica ed etica presente nel mondo scientifico, e quindi l’ignoranza dell’allargamento delle proprie responsabilità da parte dello scienziato.

Richiederebbe troppo tempo entrare nel merito di questi aspetti, ma basti dire che il termine generico di «alternativa» usato di volta in volta per definire modelli, metodi, strategie, ha fatto credere alla possibilità immediatamente realizzabile di un approccio alternativo universale di facile accesso. Questo punto ha sollecitato un’attenzione particolare, da parte di chi ha lavorato al progetto, al livello semantico e a un’elaborazione di definizioni più chiare e, al tempo stesso, accessibili al pubblico (vedi box). Ciò è stato il risultato di un notevole sforzo di “familiarizzazione” tra biologi e filosofi che ha consentito di pervenire a nuove definizioni, più specifiche  se non addirittura differenziate. In conclusione, le definizioni di ‘procedure’, ‘animali’ e ‘alternative’ hanno chiarito che il modello delle 3R è fortemente radicato in un principio morale, che è principalmente il benessere di animali senzienti. Una definizione relativamente aperta e formale di alternative è stata scelta in modo che sia possibile ampliarne, quando necessario, il significato a includere altre prospettive che non quelle specificamente dettate dai paradigmi scientifici.

La seconda considerazione ha reso necessaria un’analisi combinata degli aspetti etici e scientifici per enucleare le resistenze di carattere puramente culturale, ciò che è veramente praticabile in termini di «alternative» e per evidenziarne, al tempo stesso, gli aspetti critici dal punto di vista bioetico (per esempio, l’uso indispensabile di piccole percentuali di siero bovino fetale per il mantenimento delle culture cellulari).  Inoltre, per il settore della tossicologia, le contraddizioni tra la richiesta della sicurezza dei prodotti e quella dell’abolizione della sperimentazione animale sono emerse con forza, sottolineando che problemi complessi non possono avere che soluzioni complesse e articolate, come può essere, appunto, il modello delle 3R rivisitato alla luce dei cambiamenti intervenuti ai vari livelli della scienza, della società e della percezione morale.

Infine, è apparso necessario chiamare in causa gli scienziati affinché acquisiscano la consapevolezza che il loro codice morale non è più limitato alla pratica dell’onestà intellettuale nella loro professione (la famosa neutralità dello scienziato quando interroga la natura). Essendo la scienza fortemente cambiata, essendo essa ormai  guidata, piuttosto che da curiosità e ipotesi da verificare, dal mercato e dalle tecnologie a disposizione,  la comunità scientifica non può esimersi dal discutere dei suoi studi con la società tutta e tenere conto delle opinioni e richieste che da essa provengono. Si è arrivati a proporre persino un giuramento dello scienziato, del tipo di quello di Ippocrate per i medici [13]. A questo proposito, vale la pena ricordare che in questi anni è tornato in auge il libro scritto negli anni Cinquanta da Charles Percy Snow, Le due culture [14]. In quel celeberrimo saggio Snow criticava aspramente l’atteggiamento nei confronti della scienza degli umanisti, invitando questi ultimi ad acculturarsi anche in questo settore, perché il futuro dell’umanità ne sarebbe stato profondamente condizionato. Il libro all’epoca suscitò ampi dibattiti e certamente contribuì ad aprire gli occhi agli intellettuali più conservatori. Oggi, il libro viene di nuovo ripetutamente citato ma con l’obiettivo opposto e cioè di richiamare gli scienziati ad arricchire la loro cultura con quegli aspetti umanistici, e in particolare filosofici, che li aiuterebbero a essere concettualmente più vicini alla società e in grado di comunicare con essa. Forse  proprio per questo, il progetto con i suoi risultati e le raccomadazioni saranno di riferimento nella revisione della Direttiva 609. Intanto incomincia a circolare e a essere ben visto anche negli ambienti scientifici, grazie al contributo interdisciplinare che esso rappresenta e alla possibilità che offre di dialogare con la società.

Non a caso il progetto Anim.Al.See ha come motto una citazione humiana:
Indulge your passion for science, but let your science be human, and such as may have direct reference to action and society (4).

NOTE

(1) Direttiva 86/609/CEE del Consiglio del 24 novembre 1986 concernente il ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati Membri relative alla protezione degli animali utilizzati a fini sperimentali o ad altri fini scientifici.

(2) «Instead of studying animal stressed to maximum with near-lethal doses of toxic compounds, toxicologists may spend more time looking at biological processes much closer to normal ones, in an effort to understand the biomechanisms by which damage is done» (traduzione del redattore).

(3) «The application of modern technologies has the potential to provide more detailed and greater understanding of the convergent and underlying toxic effects of agents, through the use of molecular,cellular, and computer technologies than the traditional, animal-based, case-history study approach to toxicology» (traduzione del redattore).

(4) Hume D., Introduzione in Enquiry concerning human understanding, trad.it. Ricerca sull’intelletto umano,  Laterza, 1996.

Bibliografia

[1] Russell W.M.S., Burch R.L., The Principle of Humane Experimental Technique,  Methuen, London 1959.

[2] Smyth D., Alternatives to Animal Experiments, Scolar Press, London 1978.
[3] Doull J., “The past, present, and future of toxicology”, Pharmacol Rev, 36, 1984., pp. 15S-18S.

[4] Doull J., “The “Red Book” and other risk assessment milestones” Hum  Ecol Risk Assess, 9, 2003, pp.1229-1238.

[5] Malmfors T., Rosing H., “Introduction – risk from philosophy of science point of view”, Toxicology 181/182, 2002, pp. 109-113.

[6] Paganuzzi Stammati A., Silano V., Zucco F., “Toxicology investigations with cell culture systems”, Toxicology, 20, 1981, pp. 91-153.

[7] Marshall E., “Toxicology goes molecular”, Science, 259, 1993.

[8] Isfort R.J., Introduction in “Toxicology for the next millennium”, R.J.Isfort and J. Lederberg Eds, Ann NY Acad Sci, Vol. 919, 2000, pp. IX-X.

[9] Carere A., Stammati A., Zucco F., “In vitro toxicology methods: impact on regulation from technical and scientific advancements”, Toxicology Letters, 127, 2002, pp.153-160

[10] Zucco F., De Angelis I., Testai E.,  Stammati A., “Toxicology investigations with cell culture systems: 20 years after”, Toxicology in Vitro, 17, 2004, pp. 153-163.

[11] Balls M., Goldberg A.M., Fentem J.H., Broadhead C.L., Burch R.L., Festing M.F.W., Frazier J.M., Hendriksen C.F.M., Jennings M., van der Kamp M.D.O., Morton D.B., Rowan A.N., Russell C., Russell W.M.S., Spielmann H., Stephens M.L., Stokes W.S., Straughan D.W., Yager J.D., Zurlo J. and van Zutphen B.F.M., “The Three Rs: The way forward. The report and recommendations of ECVAM workshop 11”,  ATLA 23, pp. 838-866, 1995.

[12] Russell W.M.S., “The development of the Three R’s concept”, ATLA, 23, pp.298-304, 1995.

[13] Rotblat  J., “A Hippocratic Oath for Scientists”, Science, 286, p.1475, 1999.
[14] Snow C.P., Le due culture, Marsilio Editore, Venezia 2005.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here