Dal Cratilo platonico al Tractatus di Wittgenstein, sono infiniti i tentativi di capire come si intrecciano le cose e le parole, in che cosa divergono e in che cosa dipendono le une dalle altre. Il sogno di una lingua universale, che tra il 600 e il 700 anima le menti di molti filosofi, da Cartesio a Leibniz, ma anche di molti scienziati, incarna spesso il desiderio di creare un codice che rispecchi le cose, che restituisca in qualche modo la realtà degli oggetti.
L’ambizione è quella di evitare i fraintendimenti e le difficoltà dei passaggi tra una lingua e l’altra, ma anche quella di evitare le ambiguità presenti all’interno della stessa lingua. Ciò sarebbe servito a costruire più facilmente la pace tra i popoli, ma anche a comunicare meglio le scienze che, senza l’impaccio dell’imperfezione delle lingue naturali, avrebbero trasmesso i loro concetti con semplicità e rigore. Si tratta di creare una lingua perfetta, che non conosca quelle trasformazioni che il tempo e lo spazio operano sulle lingue naturali, che abbia regole fisse invariabili. Una lingua chiusa e compresa in un meccanismo perfetto, dal quale derivare ogni regola possibile. Un codice che permetta agli utenti di essere compreso e assimilato in poche ore e che nel suo esercizio non comporti possibilità di errori, di fraintendimenti. Dietro questo sogno, infatti, c’è il desiderio, prepotente, che da Bacone in poi viene legittimato, di sbarazzarsi definitivamente di ogni carattere di indeterminatezza proprio della lingua, di tutti i contorni sfumati e indefiniti propri dei significati delle parole.
Ma se c’è una cosa che non si lascia catturare mai entro schemi rigidi, che non si dà mai una volta per tutte, che rifiuta codici e codificazioni è proprio la lingua. Rete essa stessa, una lingua si intreccia con infinite reti di altre lingue e linguaggi: in esse si confonde e in esse si distingue fino ad arrivare a un’ulteriore rete di significati che sottendono a una stessa parola, arricchendola di infinite sfumature ma, anche, di infinite ambiguità. E, dunque, così funziona il linguaggio: intrecciando sensi e significati e rispecchiando nella sua vaghezza la stessa vaghezza della vita. Cosicchè spiegarsi è un tentativo di avvicinarsi alle cose, spesso imprecise, mai definite una volta per tutte, proprio come quella lingua che deve definirle. Ma come può, allora, una lingua, non essere d’impaccio alla descrizione della scienza? Come può un sistema così aperto e impreciso descrivere una realtà che non può essere in alcun modo fraintesa e che, non potendosi permettere ambivalenze semantiche, ha bisogno di un assoluto rigore nelle definizioni dei suoi significati? Per definire i concetti della scienza la rete deve essere chiusa, non può permettersi di sconfinare, di prevedere un’alternativa semantica nell’uso degli stessi termini. D’altronde, quando questo problema esplode, nel 600, si stavano gettando le basi di molte scienze moderne, in particolare, della geometria, della fisica e del calcolo combinatorio. Il il bisogno di identità e di precisione, anche e soprattutto attraverso le parole, nel raccontare nuovi concetti e nel definire nuove discipline era allora molto forte, quasi assoluto, come spesso accade, forse, quando qualcosa sta nascendo.
E’ proprio allora, infatti, che l’idea di una lingua perfetta, universale, comincia ad essere lo specchio di un sogno: quello di descrivere la realtà così come è, di rispecchiarla come in un quadro, restituendone colori e sfumature. Non ci sono dubbi, quando si diffonde il sogno, sulla consapevolezza del carattere convenzionale, arbitrario, della lingua, del fatto che non ci sia alcuna naturalità nei suoni e nelle parole. Il dilemma posto da Ermogene e Cratilo nel dialogo Platonico in quel momento sembra essere risolto: le parole, i nomi, sono nómoi, ethei, e non phúsei. Essi sono dati per convenzione, dunque, e non per natura. Questa consapevolezza dell’arbitrarietà del linguaggio, però, non ha significato abbandonare l’idea che comunque la lingua universale non debba riferirsi in modo necessario alle cose, non debba avere un riferimento ontologico. Quando Cartesio, rispondendo a Mersenne, nel 1929, che gli aveva inviato un progetto di lingua universale elaborato da Des Vallèes è soprattutto una la perplessità di Cartesio nel progettare una lingua simile, ed è di natura ontologica: la difficoltà, secondo lui, è quella di trovare la “Science de qui elle depende”. Cartesio non esclude che una tale lingua possa esistere, ma sulla possibilità reale che essa venga usata, egli ha forti dubbi poichè ciò “presuppose des grands changements en l’ordre des choses”. Una lingua che dipende dall’ordine delle cose, infatti, ne deve essere il necessario rispecchiamento e dunque non può non essere che qualcosa di diverso da un sistema di segni convenzionali per riferirsi ad esse. Il legame che deve essere stabilito tra l’ordine delle cose e quello delle parole nella costruzione di una lingua perfetta è ribadito anche da John Wilkins, che nei suoi Essays, in cui descrive uno dei progetti più famosi di lingua universale, parla, infatti, di una lingua che abbia dei caratteri reali, legati direttamente alle cose. Ed era proprio la scienza che si offriva di diventare uno strumento per costruire una lingua che parlasse dei suoi oggetti, un vero e proprio scalpello, a volte, per forgiare queste lingue ideali che dovevano riferirsi al mondo e descriverlo. La matematica, per esempio, in particolare, suggeriva una classificazione dei concetti attraverso simboli.
Ne parla Robert Boyle, che afferma la possibilità di fare con i numeri ciò che era stato fatto con le parole e ne parla Seth Ward, un professore di atsronomia convinto che, assegnando dei simboli alle nozioni semplici, sarebbe stato più facile rivelare la natura più intima delle cose. La biologia, d’altronde, non è da meno nella suggestione che opera su quest’impresa. I suoi meccanismi classificatori offrono a chi è in cerca di un metodo per costruire questa lingua uno strumento per ordinare i concetti in generi e classi. Non è, infatti, estraneo all’opera di Wilkins il contributo del biologo John Ray. La costruzione di alcune tavole classificatorie degli Essays, sulle quali si sarebbero basate le distinzioni concettuali per classificare le parole di quella che sarebbe stata la lingua universale nel progetto di Wilkins, sono state create con la sua collaborazione. Si trattava di una vera e propria opera di riordinamento delle cose e delle parole: nelle tavole, infatti, venivano indicate le categorie in base alle quali definire le lettere che designavano le categorie a cui appartenevano i nomi. Esse indicavano la natura alla quale apparteneva l’oggetto designato. Una lingua così aveva l’obiettivo di essere univoca nella designazione, di rivelare a colpo d’occhio la parentela tra i significati, di favorire la memoria, di sottrarsi alla mutevolezza della storia (1). Questo scopo era comune a tutte le lingue perfette concepite allora e non solo a quella di Wilkins. La suggestione che veniva dalle scienze, nel raggiungere questo obiettivo, era forte: “Wilkins si proporrà di fare con le parole ciò che Linneo più tardi farà con le piante”.
I nodi della rete dovevano essere dunque le cose, quelle cose che la scienza andava scoprendo, cosicchè la lingua non era più il mezzo per descrivere gli oggetti di quella scienza ma lo stesso metodo scientifico diventava un mezzo per suggerire e costruire il linguaggio. La lingua universale doveva perciò essere perfetta, le maglie della rete che la costituivano dovevano essere stabili, forti, tessute come in una rete d’acciaio e sconfiggere una volta per tutte, attraverso il loro legame necessario con le cose, la maledizione della trasformazione e del tempo che non lascia mai nulla di immutato, nemmeno le parole. “Mais ce n’est rien qui ne soit très aisé; car, faisant une langue où il n’y ait qu’une façon de coniuguer, de decliner et de construire les mots, qu’il n’y en ait point de defectifs ni d’irreguliers, qui sont toutes choses venues de la corruption de l’usage, et meme que l’inflexion des noms ou des verbes et la constructions se fassent par affixes, ou devant ou après les mots primitifs, lesquelles affixes soient toutes spécifiéès dans le dictionnaire, qui est le sujet de la première proposition”. (3)
Tutto quello che apre la rete del linguaggio naturale e cioè la capacità che ha la lingua di modificarsi, di adattarsi a concetti nuovi, di interagire con le altre lingue e di modulare i significati delle sue parole all’interno delle loro aree semantiche contrastava l’idea e lo spirito con cui si costruivano i progetti delle lingue universali. Rispecchiare le nozioni attraverso termini definiti una volta per tutti significava chiudere la rete e all’interno di essa fare tutti i calcoli possibili per esprimere tutti i possibili concetti, il sogno esplicito di Leibniz.Cartesio dice, nella sua lettera, che bisogna cercare gli “universali primitivi” del pensiero che per lui non potevano che essere quelle idee chiare e semplici che costituiscono il repertorio a cui la mente deve attingere per comporre questa lingua, per farla funzionare. Ma Cartesio stesso non è affatto convinto della possibilità reale di costruirla una tale lingua poichè si accorge della difficoltà insita nella condizione che sta alla base della creazione di quella che per lui è l’unica lingua perfetta possibile: la difficoltà di reperire definitivamente quelle nozioni intellettuali che devono essere i nodi centrali della rete da fissare una volta per tutte. Per Cartesio, dunque, sono proprio i fondamenti a vacillare, a rendere improbabile la costruzione di una rete che, secondo il progetto, dovrebbe essere solida e di una semplicità pari alla chiarezza con cui le nozioni dovrebbero apparire alla mente “chiare” e “distinte”. A proposito delle difficoltà di una valenza ontologica, così forte e complessa, che dovrebbe essere rispecchiata dall’unica lingua universale possibile, così come la immagina Cartesio, è interessante quanto scrive Roberto Pellerey nel suo saggio dedicato alle lingue perfette. Egli sottolinea proprio come, per Cartesio, la costruzione di questo progetto rimane confinata nell’ambito di una fascinazione intellettuale e lontana da ogni possibile attuazione.
Cartesio tuttavia, mentre propone la sua ricostruzione genetica delle nozioni intellettuali, non è interessato a costruire una lingua universale a causa della stessa metodicità del dubbio sul sapere, su ogni sapere che superi l’indubitabile livello del cogito. Può invece osservare che imprecisione ed errore caratterizzano intimamente le lingue naturali, condividendo pienamente il primo modello di critica di Bacone. (4)
Di certo, infatti, per Cartesio c’è soprattutto, in accordo con Bacone, l’idea che l’intelletto sbaglia grazie alla confusione e alla vaghezza delle idee comunicate attraverso le parole. Gli echi di una concezione simile sono arrivati fino al Tractatus di Wittgenstein che, seppure con differenti presupposti e prospettive, ripresenta il problema del linguaggio come una vera e propria “malattia” filosofica. Ma se per Wittgenstein ciò sarà l’inizio di una decostruzione del problema, che lo porterà a smantellare l’edificio di un ontologia complessa, per Cartesio una lingua che riproduca il mondo rimane un sogno impossibile. Wittgenstein rinuncia al sogno di rispecchiare nel linguaggio una rete di concetti logici, come nel sogno di un metalinguaggio perfetto, perchè si accorge che, all’interno di quella rete non può funzionare tutto, che non tutto si connette. Da un nodo all’altro della rete i passaggi non avvengono sempre in maniera necesasria e prevedibile. Cartesio, invece, colloca il suo sogno in un’altra dimensione: per realizzare la sua lingua perfetta sono necessari “des grands changements en l’ordre des chose”. Una lingua possibile, forse, in un altro ordine di cose, in un altro universo composto di oggetti perfetti in cui una rete di parole vi si possa sovrapporre agganciandola e raffigurandola attraverso i suoi nodi semantici.
Ma in questo universo, in questa realtà, in cui le cose non hanno una natura definita, in cui tutto si confonde nello stesso momento in cui si distingue l’unica risorsa possibile è proprio l’approssimazione di un linguaggio che con le sue sbavature e le sue imperfezioni riesca a partecipare delle sbavature e delle imperfezioni del mondo. L’unica rete possibile è la rete aperta, con le sue maglie deboli, pronte a sfilarsi, i suoi anelli che si aprono, per richiudersi ogni volta, con forme diverse. L’unica, però, capace di raccontare come cambia il mondo. Una rete che accetta di modificarsi, di cambiare, di non isolarsi in un sogno di onnipotenza, che accetta di non innamorasi prima di tutto di se stessa e della perfezione delle sue forme.
Bibliografia
(1) Raffaele Simone, Seicento e settecento in Storia della linguistica, a cura di Giulio C. Lepschy, vol. II Il Mulino, Bologna, 1990
(2) Paolo Rossi, Clavis Universalis, Il Mulino, Bologna.
(3) C. Adam e P. Tannery (a cura di) Oeuvres de Descartes, “Correspondance”, Vrin, Paris 1969, tomo I.
(4) Roberto Pellerey Le lingue perfette nel secolo dell’utopia, Bari, Laterza, 1992.