Oltre 50.000 scienziati di 63 nazioni impegnati in 228 progetti di ricerca tra l’Artide e l’Antartide: sono questi i numeri dell’International Polar Year (IPY) (1), promosso dall’International Council for Science (ICSU) e dalla World Meteorological Organization (WMO) per coordinare a livello globale gli studi condotti nelle regioni polari e, allo stesso tempo, sensibilizzare i decisori politici e l’opinione pubblica riguardo alla necessità di preservare le caratteristiche peculiari di queste regioni della Terra. Infatti, è ai poli che si innescano fenomeni in grado di influenzare tutto il resto del pianeta, dalle correnti oceaniche alla circolazione atmosferica, dalla produzione delle sostanze base della catena alimentare nei mari al ciclo dei gas serra catturati nelle acque e nel permafrost, il terreno perennemente ghiacciato che si trova in quelle zone. Oggi geologia e geofisica, chimica e biologia, meteorologia e climatologia, glaciologia e oceanografia non possono prescindere dalle ricerche in Artide e Antartide. Inoltre, il clima secco e una notte invernale che dura tre mesi rendono i poli punti di osservazione ideali per l’astronomia e l’astrofisica.
In questo scenario i ricercatori italiani si sono conquistati nel tempo un posto di rilievo. Per esempio, nel 2004 ha meritato la copertina di Nature un progetto internazionale a guida italiana come EPICA le cui perforazioni delle calotte ghiacciate in Antartide hanno permesso di ricostruire la storia climatologica degli ultimi 800.000 anni (2). L’onore della copertina della più prestigiosa rivista scientifica era già toccato nel 2000 all’esperimento di cosmologia BOOMERanG, che ha dato una fortissima indicazione in favore della geometria piatta dello spazio-tempo, in accordo con la teoria più accreditata sulla formazione dell’Universo, il cosiddetto modello standard (3).
Ma paradossalmente, proprio mentre gli studi al Polo Nord e al Polo Sud sono rilanciati in tutto il mondo, la ricerca italiana sta vivendo un momento di grandissima difficoltà. Le leggi finanziarie promulgate negli ultimi due anni da governi di opposta colorazione politica non hanno previsto nessun fondo specifico per la continuazione delle attività, in particolare quelle in Antartide, dove l’impegno italiano è maggiore. La proclamazione dell’IPY e la contemporanea crisi del programma di ricerca italiano sono due buoni motivi per cercare di capire perché è così importante fare ricerca nel continente di ghiaccio e quale può essere il contributo del nostro paese in questo campo. Con la speranza che possa continuare a darlo.
Collaborazioni internazionali
Raccogliendo tante ricerche nella cornice di un solo, grande programma coordinato, l’IPY vuole valorizzare i poli come territorio privilegiato per la scienza. Sei gli ambiti di indagine previsti: atmosfera, ghiacci, oceani, terre, spazio e, infine, popoli. E non c’è da sorprendersi per la presenza accanto alle scienze “dure” anche di quelle umane e sociali. In realtà, l’attenzione alla cultura tradizionale delle popolazioni native del continente artico, per esempio gli Inuit, e il loro coinvolgimento nei processi decisionali e operativi delle ricerche costituiscono un punto distintivo dell’attuale edizione dell’IPY. Al Polo Sud, l’unico continente al mondo a non avere una popolazione autoctona, gli stessi ricercatori sono oggetto di studio, per verificare il comportamento umano in condizioni di isolamento estremo.
In un contesto volto a favorire la collaborazione internazionale, non esiste un progetto significativo che sia riconducibile a un singolo paese. Ovviamente ci sono giganti come Stati Uniti e Cina, cenerentole come Egitto e Malesia. Un contributo notevole, per esempio, è quello tedesco, con la nave Polarstern, quasi un’icona delle ricerche polari. In 25 anni esatti di attività questo vascello rompighiaccio attrezzato per il trasporto di scienziati e materiale, nonché dotato di laboratori, ha compiuto oltre trenta spedizioni ai due estremi della Terra.
Uno dei programmi più importanti dell’intero IPY è ANDRILL (4) (acronimo di ANtarctic geological DRILLing), cui collaborano 200 persone da cinque nazioni. Prevede la trivellazione profonda entro il 2009 di diverse zone costiere in prossimità della Stazione McMurdo, la base statunitense che è il più grande centro di ricerca dell’Antartide. I campioni di ghiaccio e di sedimenti del fondo marino sono analizzati man mano che vengono raccolti con l’ambizioso scopo di ricostruire l’alternanza tra fasi glaciali e periodi di transizione negli ultimi 40 milioni di anni.
ANDRILL è uno dei 54 progetti, sui 228 patrocinati dall’IPY, ai quali collaborano gli italiani (in sei casi come leader del progetto). «Basterebbero questi dati per capire il posto di rilievo occupato nella scienza polare dai ricercatori italiani», commenta il geologo Carlo Alberto Ricci, professore all’Università di Siena e tra i responsabili della partecipazione tricolore all’IPY, in qualità di presidente, dal 2003, della Commissione Scientifica Nazionale per l’Antartide (CSNA) (5).
La CSNA ha il compito di elaborare a scadenza triennale il Programma Nazionale di Ricerche in Antartide (PNRA) (6), cioè l’insieme dei progetti di ricerca scientifica e tecnologica per il Polo Sud finanziati dal nostro paese. Svolge anche il delicato ruolo di collegamento con gli altri organismi che operano al Polo Sud, dal punto di vista scientifico e della gestione politica. Tutte le attività in Antartide devono sottostare ai termini previsti da un insieme di accordi multilaterali noto come Sistema del Trattato Antartico (Antarctic Treaty System, ATS). Oggi 46 nazioni riconoscono a vario titolo l’ATS, il cui nucleo originario, il Trattato di Washington, fu il primo accordo internazionale a essere stipulato dopo la Seconda Guerra Mondiale. Era il 1959, si era appena concluso l’Anno Geofisico Internazionale.
L’attuale IPY si svolge da marzo 2007 a febbraio 2009, proprio nel cinquantesimo anniversario dell’Anno Geofisico Internazionale del 1957-1958, considerato il terzo Anno Polare Internazionale dopo quelli proclamati nel 1882-83 e nel 1932-33. La durata biennale permette di dedicare un anno completo di indagini a ciascuno dei poli. Le ricerche italiane in Artide avvengono essenzialmente all’interno di un programma strategico del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), che gestisce una base nell’arcipelago norvegese delle isole Svalbard. Quelle in Antartide sono svolte nell’ambito del PNRA, istituito dall’allora Ministero dell’Università e della Ricerca nel 1985, quattro anni dopo l’adesione del nostro paese al Trattato Antartico. Oggi abbiamo due basi italiane permanenti in Antartide: la Stazione Mario Zucchelli a Baia Terra Nova, costruita sulla costa rocciosa del continente, e la Stazione Concordia, gestita insieme alla Francia e situata a Dome C, a più di 3.200 metri di altezza sul livello del mare nella calotta interna. Sia il programma di ricerche artico che quello antartico coinvolgono le discipline più diverse, dalle scienze della Terra a quelle delle vita, dallo studio dei ghiacci e degli oceani a quello dell’atmosfera e dello spazio esterno.
I “semi” delle galassie e l’Universo inflazionario
«Le zone polari sono un osservatorio privilegiato per studiare l’origine delle strutture cosmiche, i “semi” che hanno dato vita alle galassie, agli ammassi e ai superammassi di galassie», spiega Silvia Masi, astrofisica dell’Università «Sapienza» di Roma: «Circa 380.000 anni dopo il Big Bang, avvenuto 13 miliardi 700 milioni di anni fa, tutta la materia dell’Universo era incandescente, più o meno come la superficie del Sole oggi. A causa dell’espansione dell’Universo, quella che allora era luce accecante è divenuta un debole fondo di radiazione che pervade tutto il cosmo ed è rivelabile nella banda delle microonde. Recentemente è stato possibile evidenziare che al variare della direzione di osservazione questa radiazione presenta piccolissime fluttuazioni, chiamate anisotropie». Gli studiosi ritengono che le fluttuazioni siano correlate a regioni dell’Universo primordiale dove la materia era un po’ più densa che altrove: lì sarebbero nate le strutture su grande scala, come appunto galassie, ammassi e superammassi, che ai nostri giorni vediamo con i telescopi. «Purtroppo», aggiunge la ricercatrice, dal 1998 nel team di BOOMERanG, «le anisotropie sono estremamente flebili, dell’ordine di una parte su 30.000 per la radiazione cosmica di fondo, che è già debole di suo! La stessa atmosfera terrestre disturba osservazioni così delicate».
Per effettuare misure accurate, quindi, bisogna mandare gli strumenti oltre l’atmosfera, a bordo di palloni stratosferici oppure di satelliti. Ma mentre mettere un satellite in orbita attorno alla Terra costa molto, l’Artide e l’Antartide forniscono opportunità uniche per i palloni stratosferici. «Lanciandoli da una latitudine di circa 79°, nord o sud nei due casi», continua Masi, «si possono sfruttare correnti stratosferiche che formano un vortice naturale e permettono alla navicella di circumnavigare il Polo. Tornando al punto di partenza in circa due settimane, il pallone percorre diverse migliaia di chilometri all’altitudine media di 35 chilometri. Durante l’estate il Sole è sempre sopra l’orizzonte e viene sfruttato per alimentare gli strumenti».
Così ha funzionato l’esperimento BOOMERanG (Balloon Observations Of Millimetric Extragalactic Radiation and Geophysics), un telescopio lanciato da Williams Field, in Antartide, nel 1998 e ancora nel 2003, in una diversa versione battezzata B2K. «I dati raccolti nei due voli», racconta Paolo de Bernardis, l’astrofisico dell’ateneo romano a capo del gruppo di ricerca internazionale, «hanno permesso di misurare con grande precisione alcuni parametri globali dell’Universo, come la sua curvatura e la sua densità media di massa ed energia». Il successo di BOOMERanG è valso a de Bernardis il prestigioso Premio Balzan 2006 per l’astronomia e l’astrofisica osservative (7), ma la ricerca continua: il raffinamento degli esperimenti porterà a conoscere con accuratezza crescente un’altra caratteristica chiave del fondo cosmico a microonde oltre alle anisotropie, la polarizzazione. «In futuro», annuncia de Bernardis, «questo permetterà di indagare le primissime fasi dell’evoluzione dell’Universo, in particolare la cosiddetta fase inflazionaria, avvenuta 10-35 secondi dopo il Big Bang, durante la quale una regione microscopica del tessuto spazio-temporale del cosmo dovrebbe essere stata espansa fino a dimensioni molto maggiori di quelle dell’Universo osservabile oggi! Per questo stiamo sviluppando un nuovo volo di BOOMERanG, finanziato dall’Agenzia Spaziale Italiana (ASI). Ma questa volta volerà al Polo Nord, in condizioni ambientali diverse e per certi versi inedite».
Se infatti i voli stratosferici sono ben collaudati per l’Antartide, lo stesso non si può dire riguardo all’Artide. Solo l’estate di due anni fa una piccola navicella scientifica, chiamata PEGASO (Polar Explorer for Geomagnetism And other Scientific Observations), ha compiuto per la prima volta in assoluto la circumnavigazione del Polo Nord con un pallone stratosferico. A riuscire là dove perfino la NASA aveva fallito è stato un gruppo italo-norvegese con a capo proprio Silvia Masi (8). L’esperienza di PEGASO, che ha ottenuto il supporto ufficiale dell’IPY, servirà non solo per la nuova fase di BOOMERanG, ma anche per un altro progetto finanziato da diversi enti italiani, OLIMPO, un telescopio di 260 centimetri di diametro che studierà l’effetto prodotto sulla radiazione cosmica di fondo dal gas che si trova tra una galassia e l’altra di un ammasso.
«L’Italia investe molto meno di altre nazioni nell’Artide», commenta amaramente la ricercatrice, «e mentre per i lanci dei palloni c’è una specie di gara tra Francia, Svezia e Stati Uniti, noi italiani abbiamo il grande problema politico di ottenere dalle varie nazioni che si affacciano sul Polo Nord il permesso di sorvolare con i nostri strumenti il loro territorio». La ricerca fa le spese del rinnovato interesse internazionale per il Polo Nord dovuto alla riduzione della calotta ghiacciata e alla conseguente apertura di nuove rotte per le navi mercantili e militari.
In attesa dei nuovi voli di BOOMERanG e OLIMPO, che sarà lanciato anche al Polo Sud, Masi e de Bernardis stanno lavorando a BRAIN (Background Radiation Interferometer), un telescopio per lo studio della polarizzazione della radiazione cosmica di fondo diverso da quelli visti finora. Non si tratta infatti di uno strumento da caricare su un pallone, ma di un interferometro installato nella base antartica di Dome C per il periodo dell’estate australe (cioè l’inverno alle nostre latitudini) e finanziato dal PNRA.
Cielo a fuoco
Il plateau antartico offre eccezionali possibilità agli astronomi. Per sfruttare al meglio le potenzialità di un telescopio, infatti, dev’essere minima la presenza di vapor d’acqua nell’atmosfera. Questo assorbe la radiazione nella banda infrarossa e in quella millimetrica, rendendo i segnali di questo tipo provenienti dalle sorgenti celesti estremamente deboli o addirittura impossibili da rivelare. Inoltre le condizioni atmosferiche devono essere stabili, perché la turbolenza dovuta al rimescolamento di masse d’aria di differente temperatura impedisce di vedere il cielo in maniera nitida e l’immagine di un astro risulta degradata.
Tutte queste caratteristiche si ritrovano in Antartide, in particolare a Stazione Concordia, la base italo-francese operativa dal 2005 nel sito denominato Dome C (75°06′ Sud e 123°23′ Est) a 3.233 metri di altezza. Qui l’aria è talmente fredda che la turbolenza è ridottissima. Il 3 settembre 2007 è stato raggiunto il record di temperatura per Dome C, – 81.9 °C, limite stagionale per l’Antartide. Ne sa qualcosa Runa Briguglio, giovane dottorando in astronomia della «Sapienza» Università di Roma che ha partecipato alla XXII spedizione e, mentre scriviamo, si prepara a tornare in Italia dopo aver passato al Polo Sud il cosiddetto winter over. Con questa espressione si intende il periodo da febbraio a novembre che comprende la stagione invernale antartica, quando dall’inizio di maggio all’inizio di agosto il Sole resta sempre sotto l’orizzonte. Contattato via Internet, Briguglio, che studia il cielo nella banda ottica, cioè la luce cui sono sensibili i nostri occhi, e in quella, infrarossa, ci ha spiegato le ragioni del suo lungo soggiorno antartico: «Le misure che possiamo ottenere al Polo Sud con tre mesi consecutivi di buio sono paragonabili solo a quelle compiute dai telescopi spaziali. Con due grandi differenze rispetto a un satellite in orbita: un telescopio in Antartide costa enormemente meno e ci può essere un ricercatore che si dedica allo strumento, lo migliora, analizza i problemi che possono sorgere e li risolve sul campo. Per i satelliti questo non è ovviamente fattibile. A mio parere ciò giustifica pienamente tutti gli svantaggi che, senza dubbio, un telescopio a Dome C possiede rispetto a uno in orbita». A fronte di alcune condizioni ambientali estremamente favorevoli, infatti, ve ne sono anche di problematiche: per esempio la neve che si deposita sulle ottiche, i problemi legati all’energia elettrica, il ghiaccio che si forma sulle parti meccaniche e così via.
«Vale la pena di investire nella ricerca in Antartide», afferma Briguglio, «sia dal punto di vista economico che da quello personale, perché un inverno trascorso a – 80 °C senza possibilità di essere evacuati in caso di emergenza è una esperienza piuttosto impegnativa!». La Stazione Concordia si trova all’interno del continente, a oltre un migliaio di chilometri di distanza dalle più vicine basi sulla costa, e d’inverno può diventare irraggiungibile. Durante i 283 giorni consecutivi che ha passato isolato a Dome C insieme ad altri tredici colleghi, i cosiddetti “invernanti” (sei italiani e sette francesi tra ricercatori e personale logistico) Briguglio ha lavorato a Small IRAIT (9) (Infrared Robotic Antartic International Telescope), un piccolo strumento con uno specchio da 25 centimetri di diametro. Lo scopo è fare da apripista a IRAIT, un telescopio da 80 centimetri di diametro che dovrebbe essere installato in Antartide all’interno del programma STELLA ANTARCTICA (10), sponsorizzato dall’IPY e che aspira a gettare a Dome C, potenzialmente il miglior sito osservativo del mondo, le basi di un futuribile osservatorio astronomico permamente europeo. Infatti IRAIT e la sua versione ridotta sono frutto di una collaborazione tra gruppi italiani, tedeschi, spagnoli (ma anche australiani) diretti dall’Università di Perugia. I dati raccolti forniranno preziose indicazioni per la continuazione del progetto: «Abbiamo sperimentato l’acquisizione di dati su una stessa stella per 10 giorni consecutivi, cosa fattibile solo dallo spazio, con ottimi risultati. Se si continuerà su questa pista, non tarderanno ad arrivare progressi scientifici e tecnologici rilevanti». «Il problema per noi italiani è che l’Antartide non è quasi per nulla conosciuta dal grande pubblico e anche per questo la sensibilità politica verso la ricerca polare è molto debole», conclude il ricercatore. Nel loro piccolo, gli “invernanti 2007” hanno dato vita a un sito web (http://www.concordiabase.eu) con immagini, curiosità, descrizioni e aggiornamenti sulle quelle della base. Non solo quelle di ricerca: dando un’occhiata al sito e al blog di Daniel Mekarnia (11), astronomo francese a Stazione Concordia, si incontrano spesso istantanee di grandi tavolate, partite a biliardo, feste in maschera… Non si tratta di scienziati gaudenti. In realtà momenti di svago e di divertimento in comune sono fortemente consigliati dagli psicologi. Un invito che gli invernanti accolgono volentieri, non si stenta a capire perché.
Mentre Briguglio preparava le valige, a Stazione Concordia era in arrivo con la XXIII spedizione italiana in Antartide (12) un’altra dottoranda in astronomia dell’ateneo romano. Diversamente dal collega, Lucia Sabbatini lavora nella banda millimetrica, al confine tra infrarossi e microonde, per mezzo di COCHISE (Cosmological Observations at Concordia with High-sensitivity Instrument for Source Extraction), un telescopio installato a Dome C all’inizio del 2007. Arrivata il 9 novembre, si fermerà fino al 28 gennaio 2008, in piena stagione estiva australe. E oltre a occuparsi di COCHISE, collaborerà al progetto didattico “Adotta una scuola dall’Antartide”. Promosso dal PNRA e giunto alla settima edizione, il programma impegna il ricercatore in uno scambio attivo, organizzato e non saltuario, di informazioni sull’ambiente antartico e sulla scienza con una scolaresca italiana che ha fatto richiesta di essere “adottata”. L’iniziativa è possibile grazie alle nuove tecnologie, dalla posta elettronica alle videoconferenze via Rete in diretta tra Stazione Concordia e la scuola.
Ghiaccio profondo
Tanta attenzione allo spazio sembra contraddire l’affermazione che le ricerche ai poli sono fondamentali per capire meglio il nostro pianeta. Ma la contraddizione è solo apparente perché la principale fonte di energia che alimenta tutti i fenomeni terrestri si trova nello spazio: «La Terra riceve energia dal Sole e le aree intertropicali sono quelle che ne ricevono la maggior parte. L’energia è poi distribuita su tutto il globo attraverso due sistemi complessi, la circolazione atmosferica e le correnti marine», spiega Valter Maggi, paleoclimatologo dell’Università degli Studi di Milano Bicocca. «L’atmosfera reagisce velocemente e la sua circolazione caratterizza la meteorologia. L’oceano trasporta l’energia in tempi molto più lunghi, ma le correnti ne trasferiscono quantità enormi, con influssi sulle variazioni del clima. I principali motori delle correnti oceaniche si trovano nelle regioni polari, che quindi diventano aree preferenziali per capire il funzionamento del nostro sistema climatico, per esempio sulle scale temporali dell’ordine delle centinaia di migliaia di anni». La paleoclimatologia cerca di ricostruire il passato del clima terrestre per ottenere indicazioni sulla sua evoluzione futura. La chiave di tutto questo lavoro è il ghiaccio: «Quando il vapor d’acqua solidifica in aria e precipita al suolo», continua Maggi, «raccoglie le polveri fini sospese in atmosfera. Durante questo processo capita anche che bolle d’aria restino intrappolate nei ghiacci. Tutto ciò rende i ghiacciai degli archivi naturali ricchi di informazioni sulle trasformazioni dell’atmosfera. L’Antartide e la Groenlandia sono importanti da questo punto di vista perché lì si trovano i ghiacciai più grandi».
Per entrare in possesso di queste informazioni, si fanno trivellazioni di migliaia di metri per estrarre le famose “carote di ghiaccio”, sezioni cilindriche delle calotte di una decina di centimetri di diametro e qualche metro di lunghezza che, messe in fila una dopo l’altra, coprono la perforazione in tutta la sua profondità. Le carote sono poi studiate pezzo per pezzo, analizzando la composizione chimica e le proprietà fisiche del ghiaccio e dell’aria intrappolata. Così si può sapere, per esempio, quali gas serra fossero presenti nell’atmosfera di centinaia di migliaia di anni fa e con quale concentrazione. Inserendo i dati in opportuni modelli matematici, si ricava l’effetto che quelle sostanze avevano all’epoca sul clima del nostro pianeta. I ricercatori italiani sono protagonisti nei maggiori programmi di trivellazione. In particolare Maggi ha partecipato a uno dei progetti di più importanti, EPICA (European Project for Ice Coring in Antarctica), promosso tra il 1996 e il 2005 da una decina di nazioni europee. EPICA ha permesso di ottenere una carota di ghiaccio di tre chilometri: la più antica registrazione climatica mai ricavata con questa tecnica. Ancora una volta, Stazione Concordia è stata teatro di questo successo anche italiano. Il confronto con i dati raccolti da un analogo progetto europeo svolto al Nord, GRIP (Greenland Ice Core Project) in Groenlandia, ha permessso di ricostruire la storia climatica degli ultimi 740.000 anni. È grazie a misure come queste che gli studiosi ritengono di aver trovato la chiara indicazione che nel cambiamento climatico in corso il contributo dei gas serra di origine antropica, cioè prodotti dall’attività umana, è fondamentale: infatti la concentrazione di anidride carbonica e gas serra in passato non ha mai raggiunto i livelli attuali.
Ma per avere la conferma definitiva, bisogna continuare a scavare. Poco dopo aver risposto alle nostre domande via Internet, Maggi è partito per Talos Dome, un campo remoto non permamente a circa 300 chilometri dalla Stazione Mario Zucchelli, dove è in corso il progetto TalDICE (TALos Dome ICE Core project). Il carotaggio arriverà fino a circa 1.500 metri, meno di EPICA. La zona di perforazione presenta caratteristiche differenti da Dome C e quindi gli studiosi si aspettano informazioni per certi versi complementari a quelle raccolte con il precedente progetto. Senza dimenticare che il paleoclimatologo italiano è coinvolto anche nel già citato ANDRILL, uno dei fiori all’occhiello dell’intero IPY.
Acqua di vita
Quanti sono gli oceani della Terra? Probabilmente la maggior parte di noi risponderebbe “tre”, l’Atlantico, il Pacifico, l’Indiano. E invece sono cinque, perché quelli che a scuola si studiavano come i due mari glaciali, artico e antartico, sono stati elevati dagli studiosi al rango di veri e propri oceani, l’Oceano Artico nella regione del Polo Nord e il grande Oceano Meridionale attorno all’Antartide. In entrambe le aree hanno luogo fenomeni decisivi per l’ecosistema dell’intero pianeta.
Paola Del Negro, dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale (OGS) di Trieste, è in Antartide per studiare il ruolo delle acque oceaniche nella regolazione dei livelli di anidride carbonica (CO2) in atmosfera. Uno scenario complesso, dinamico nel tempo e in cui bisogna tenere conto di numerosi processi fisici e biologici che interagiscono tra loro, come ci ha illustrato la ricercatrice: «In virtù delle leggi dei gas, le acque fredde concentrano più CO2 rispetto alla acque calde. Quindi in Antartide le acque superficiali, molto fredde, si arricchiscono di gas, sottraendolo all’atmosfera. Per la maggior densità tendono ad andare a fondo e così la CO2 disciolta resta intrappolata in profondità, impiegando circa un millennio a tornare in superficie». Ma anche gli organismi viventi hanno la loro parte nel ciclo della CO2. «In queste acque superficiali», continua Del Negro, «gli organismi fitoplanctonici sopravvivono grazie alla fotosintesi: assorbono la CO2 atmosferica e, grazie a luce, acqua e sali nutritivi in questa disciolti, la utilizzano per produrre le molecole organiche necessarie al loro sostentamento. Le acque superficiali antartiche sono ricche di fitoplancton e di sali nutritivi, perciò d’estate, quando la luce è continua, si realizzano processi fotosintetici talmente intensi che consumano tantissima CO2 atmosferica. In loro assenza, questa aumenterebbe in un secolo del 35 per cento».
Però la fotosintesi non è l’unico processo biologico che contribuisce alla concentrazione di CO2 nell’acqua. «Il fitoplancton », aggiunge Del Negro, «libera le molecole organiche nell’ambiente durante il normale ciclo vitale, per esempio per escrezione oppure perché la cellula muore. Il materiale così disciolto, che rappresenta l’80-90 per cento della sostanza organica totale dell’ambiente marino, è utilizzato per la respirazione dai batteri, che in questo modo consumano ossigeno e producono CO2. Un passaggio fondamentale anche perché consente il recupero dell’energia chimica contenuta nelle molecole organiche e il suo trasferimento alla biomassa e quindi alla catena alimentare». La biomassa che si forma nella regione antartica viene successivamente distribuita nell’intera idrosfera dalle correnti oceaniche, innescate dalla differenza di densità tra bacini a diversa temperatura e salinità, come il cosiddetto “nastro trasportatore” (conveyor belt).
Quindi, se i ghiacci delle calotte polari possono dare informazioni utili a ricostruire la storia del clima terrestre, le acque antartiche aiutano a comprendere i meccanismi che trasformano e plasmano l’ambiente attuale. Processi che, incredibilmente, dipendono dall’interazione tra l’atmosfera, l’oceano e i minuscoli organismi del fitoplancton: un insieme di fattori tecnicamente chiamato ecologia microbica. Purtroppo, lamenta Del Negro, in studi così delicati e importanti il nostro paese sta perdendo terreno rispetto ad altre nazioni: «Sono coinvolta in progetti di ricerca internazionali nell’ambito dell’IPY che non sono stati sponsorizzati anche dalla comunità scientifica italiana per mancanza di fondi. Negli ultimi due anni, praticamente, l’Italia ha inviato spedizioni ridotte in Antartide. Avevamo un ruolo di primo piano nella ricerca polare e ho ancora un po’ di speranza che i nostri politici comprendano l’importanza di mantenerlo…».
Vent’anni di PNRA… e dopo?
Da tempo la scienza italiana accusa la politica, senza distinzioni di schieramento, di non capire il valore della ricerca, e non stiamo qui a ricordare per l’ennesima volta gli obiettivi stabiliti dalla Conferenza di Lisbona nel 2000. Fatto sta che, sul piano degli investimenti, invece che passi avanti se ne son fatti indietro, come ricorda il presidente della CSNA Carlo Alberto Ricci: «Dopo venti anni di finanziamenti relativamente continui, nella Legge Finanziaria 2006 improvvisamente è scomparsa ogni previsione di finanziamento al PNRA. E nonostante il cambio del governo, nemmeno la Finanziaria 2007 aveva uno specifico stanziamento per la continuazione delle attività». Fino al 2006, il finanziamento complessivo del PNRA era stato di circa 500 milioni di euro in venti anni, per una quota media annua di 25 milioni di euro. Nel quinquennio 2000-2005, peraltro, il finanziamento in termini di valore reale era stato inferiore a quello del quinquennio 1985-1990 di almeno il 30 per cento.
Insomma, una situazione non rosea è diventata drammatica. «In questi due anni», ricorda amaramente Ricci, «il Ministero per l’Università e la Ricerca ha reso disponibili, dal fondo comune per gli enti pubblici di ricerca, 9 milioni per il 2006 e 10 milioni per l’anno successivo, somme che hanno consentito solo interventi con carattere di emergenza, tesi al mantenimento degli impegni internazionali e alla salvaguardia del patrimonio scientifico e delle infrastrutture. La spedizione 2006 ha visto la cancellazione di oltre l’80 per cento delle attività di ricerca, e ancora peggiore si presenta la situazione del 2007». Insomma, il futuro della presenza italiana in Antartide è incerto. Al punto da spingere gli scienziati a una clamorosa e per loro inusuale protesta: un sit in in piazza Montecitorio il 25 ottobre dell’anno scorso e la distribuzione di una lettera aperta che denuncia il rischio per il nostro paese di essere «tagliato fuori dalle decisioni strategiche che riguardano il futuro del pianeta ». Già le occasioni offerte all’Italia dall’IPY, come l’allargamento dei programmi bipolari, cioè che coinvolgono sia il Polo Nord che il Polo Sud, sono andate perdute per l’impossibilità concreta di compiere una seria pianificazione. I giovani ricercatori, che hanno sopportato anni di precariato convinti che il valore del loro lavoro sarebbe stato riconosciuto, si sentono frustrati e traditi.
Al momento in cui scriviamo siamo fermi alle dichiarazioni rilasciate dal ministro Fabio Mussi nel corso dello European Polar Summit che si è svolto a Roma all’inizio del mese di novembre 2007. Il ministro ha espresso la forte intenzione di promuovere, in accordo con il ministro delle Finanze e con i gruppi parlamentari, un emendamento che garantisca finanziamenti adeguati e continui nel tempo a partire dal 2008. Ma proprio questa condizione di incertezza, la mancanza di una visione strategica, è ciò che più getta nello sconforto i ricercatori italiani, come se la scienza polare fosse un lusso che il nostro paese non può più permettersi. Un sentimento ben espresso da Ignazio Ezio Tabacco, coordinatore del settore “Ricerche multi e interdisciplinari” del PNRA, in occasione della consegna al Parlamento del fascicolo che illustra i venti anni di ricerca italiana in Antartide (13): «Abbiamo portato il frutto del nostro lavoro e non chiediamo nulla in questo momento. È l’orgoglio del nostro lavoro e sarà il Parlamento a decidere». Quando leggerete queste righe, si saprà come è andata a finire.
NOTE
(1) www.ipy.org.
(2) EPICA COMMUNITY MEMBERS, «Eight glacial cycles from an Antarctic ice core», Nature 429, 2004, pp. 623-28.
(3) DE BERNARDIS P., et al., «A flat Universe from high-resolution maps of the cosmic microwave background radiation», Nature 404, 2000, pp. 955-59.
(4) www.andrill.org/about/andrill.
(5) www.csna.it.
(6) www.pnra.it.
(7) oberon.roma1.infn.it/boomerang/b2k.
(8) www.uniroma1.it/eventi/documenti/pressrelease.pdf.
(9) www.italiantartide.it/Spedizioni/xxii/.
(10) http://classic.ipy.org/development/eoi/proposal-details.php?id =385″.
(11) www-luan.unice.fr/~mekarnia/hivernage/.
(12) www.italiantartide.it/Spedizioni/xxiii/.
(13) Disponibile sul sito www.csna.it, sezione documenti.