Carla Castellacci, Telmo Pievani
Sante ragioni. Dal vivere al morire le mani della Chiesa sulla nostra vita
Chiarelettere 2007, pp. 300, euro 13,60
Le ragioni per parlare oggi di laicità e libertà individuale non mancano certo. Tra le più urgenti, la necessità di opporsi all’inganno confessionale delle “sante ragioni” sbandierate dal cosiddetto “partito della vita”. E proprio “Sante Ragioni” si intitola il libro di Carla Castellacci, biologa, e Telmo Pievani, professore di Filosofia della Scienza all’Università di Milano Bicocca. Un libro che, come indica il sottotitolo “Dal vivere al morire le mani della Chiesa sulla nostra vita”, affronta molti argomenti sui quali la Chiesa pretende, con successo, una sorta di monopolio – anche se poi la stessa Chiesa inciampa in una lunga serie di ossimori e contraddizioni come gli autori del volume rilevano puntualmente – e sui quali la classe politica non è in grado di far sentire la propria voce.
Per quanto riguarda la possibilità di disporre del proprio corpo e delle decisioni di fine vita, spesso da parte cattolica viene agitata come spauracchio o come fantasma l’eutanasia nazista, quella che la propaganda presentava come “morte pietosa”. Ma il paragone è del tutto improprio. Chi fa appello a queste argomentazioni, ricorda Castellacci, evidentemente “pensa che ai nazisti importasse qualcosa del dolore dei morenti. Ma le stesse persone, di fronte a casi come quello di Piero Welby, chiamano ‘eutanasia’ un atto medico che accompagni a una morte senza dolore, anche se si tratta della sedazione di un paziente che chiede di interrompere un trattamento artificiale di sostegno alla vita”.
La distanza tra le due “eutanasie” non potrebbe però essere più profonda: in un caso le persone venivano sacrificate in nome della Razza o del Volk; l’eutanasia nazista era un modo ipocrita di definire un omicidio. Oggi il diritto a morire costituirebbe una possibile scelta dell’individuo, non una imposizione. Se la Chiesa cavalca questo malinteso e si oppone alla libera scelta per un intrinseco paternalismo, la politica tace nonostante i proclami di laicità e la innegabile secolarizzazione del nostro paese. “L’ostacolo politico, e pratico,”, afferma Pievani, “riguarda l’esistenza di una maggioranza parlamentare trasversale che impedisce l’approvazione di norme – relative soprattutto all’allargamento dei diritti civili – che non siano ‘tollerate’ o approvate dai rappresentanti della principale confessione religiosa operante nel nostro Paese”. Conseguenza di ciò, osserva l’autore, è una “particolare condizione di laicità ‘vigilata’ su alcuni temi cruciali”.
Tutto ciò è paradossale, proprio come invocare la cosiddetta famiglia tradizionale per respingere fermamente la richiesta di garanzie per forme di convivenza diverse, ignorando cosa accadeva prima della riforma del diritto di famiglia, e cullando l’illusione, come ricorda Castellacci, di essere “un Paese evoluto in cui certe cose non potrebbero succedere più, si pensi per esempio al ‘delitto d’onore’. Però allora non si capisce perché ci voglia così tanto a varare una legge sulla violenza contro le donne. O una legge per la tutela dei minori, un vuoto legislativo che è stato evidenziato niente meno che da Rosy Bindi”. Tutto ciò è paradossale come definire il crocifisso un simbolo laico. O ancora discutere riguardo alla sua presenza nelle aule scolastiche, argomento tabù in Italia.
Un paese dove, scrive Pievani: “si è preferito come al solito la soluzione di compromesso al ribasso, il giochetto retorico di definire la laicità italiana (in una sentenza del Consiglio di Stato) come un valore fondato su principi trascendenti, testuale. In virtù di questa laicità “religiosamente fondata” il crocifisso diventa un simbolo laico di appartenenza alla comunità nazionale”.
Come è altrettanto paradossale la difesa della “vita” intesa come coincidente con il Dna, una difesa riduzionista e “biologica” della esistenza umana: “di fronte alla complessità dei processi dello sviluppo embrionale – afferma Castellacci – è assurdo pensare che un essere umano sia in qualche modo predeterminato già dalla fecondazione, dal suo Dna. Giustificare l’idea che già l’ovocita fecondato è una persona, con gli stessi diritti dei genitori e in particolare della madre, conduce alle sabbie mobili di un determinismo genetico a dir poco anacronistico”.
Appena le “sante ragioni” vengono sottoposte al vaglio di una analisi logica, crollano come legno marcio.