Secondo una ben nota legge di mercato, ogni equazione dimezza le vendite di un libro scientifico, e ogni citazione del nome di Dio le raddoppia. Una verifica sperimentale della legge è Dal Big Bang ai buchi neri di Stephen Hawking (Rizzoli, 1988), che riporta una sola formula ma parecchie speculazioni sui pensieri della mente di Dio, ed è (dunque) stato il maggior best-seller, scientifico e non, del Novecento.
Non si deve però credere che gli scienziati parlino di Dio (soltanto) per aumentare le vendite dei loro libri. Si può anzi sostenere che essi siano ormai gli unici possibili interpreti di quella che una volta si chiamava teologia naturale: del tentativo, cioè, di dedurre l’esistenza e gli attributi della Divinità a partire dalle Sue opere, invece che dai Suoi libri. La prima via fa affidamento sulle cose, e la seconda sulle parole: poiché le cose si comportano allo stesso modo dovunque, ma le parole no, non ci vuole molto a capire quale via si debba seguire per arrivare ad una comprensione adeguata della vera natura di Dio.
Quando del mondo si sapeva poco, e quel poco che si sapeva lo si deduceva principalmente dalla ragione, ne poteva parlare chiunque. Da quando invece del mondo si è cominciato a sapere molto, e quel molto che si sa lo si deduce principalmente dall’esperienza, ne possono parlare soltanto gli esperti. Corrispondentemente, la teologia naturale ha cessato di essere appannaggio di preti e filosofi, ed è divenuta il banco di prova degli scienziati: principalmente fisici, biologi e cognitivisti, cioè di coloro che si interessano del cosmo, della vita e della coscienza.
Il passaggio di consegne è testimoniato, in maniera drammatica, da almeno due serie di eventi. In primo luogo, le famose Lezioni Gifford, inaugurate nel 1888 per “promuovere e diffondere lo studio della teologia naturale e della conoscenza di Dio”. In secondo luogo, il prestigioso Premio Templeton, istituito nel 1972 per rimediare alla mancanza di un Premio Nobel per la religione, e assegnato per “l’originalità nell’avanzare la comprensione di Dio o della spiritualità”.
Le più note Lezioni Gifford degli inizi furono tenute da filosofi quali William James e Alfred North Whitehead, e da esse nacquero opere importanti quali La varietà dell’esperienza religiosa e Processo e realtà. Con l’avvento della nuova fisica le porte delle Lezioni si aprirono agli scienziati, dal cosmologo relativista Arthur Eddington al meccanico quantistico Niels Bohr, e negli ultimi decenni si sono letteralmente spalancate per lasciar passare da un lato fisici quali Freeman Dyson e Roger Penrose, e dall’altro teologi-scienziati quali Ian Barbour e John Polkinghorne.
Anche il Premio Templeton, che con il suo milione di dollari è la più ricca onorificenza esistente, è stato agli inizi assegnato a personaggi canonici quali Madre Teresa e Alexandr Solzhenitzin, ma ora incomincia ad andare a scienziati che si interessano di questioni teologiche: nel 1995 l’ha vinto il noto divulgatore Paul Davies, autore di best-seller dai titoli significativi quali Dio e la nuova fisica o La mente di Dio (Mondadori, 1983 e 1993), e lo scorso anno l’ha vinto già citato Ian Barbour.
Il premio di quest’anno è stato consegnato il 16 maggio nella Cattedrale di Washington a Freeman Dyson, che non ha mai prodotto lavori esplicitamente religiosi, ma ha affrontato problemi quali l’origine della vita e il destino dell’universo nelle sue affascinanti Lezioni Gifford, pubblicate in Infinito in ogni direzione (Rizzoli, 1989). Dyson si è opposto nel passato a vari progetti scientifici multimiliardari, dai superacceleratori alle stazioni orbitali, e nella sua ultima opera Il sole, il genoma e Internet (Boringhieri, 2000), accusa la scienza moderna di limitarsi a creare giocattoli per occidentali viziati, dai cellulari ai lap-top, contribuendo ad allargare la forbice tra ricchi e poveri, invece di preoccuparsi di creare un mondo più giusto, concentrandosi su tecnologie come quelle che danno il titolo al libro.
Può essere interessante soffermarsi per un attimo sulle “credenze” dei nuovi teologi naturali. Davies è formalmente aconfessionale, ma sostiene che l’esistenza dell’uomo è stata “voluta” dall’universo. Dyson si dichiara “sociniano”: crede, cioè, che Dio non sia né onnipotente né onnisciente, ma cresca e impari mentre l’universo si sviluppa. Barbour è sostanzialmente ariano: considera Cristo ispirato ma non divino, un esempio del “nuovo che emerge” nell’umanità. Polkinghorne ritiene che l’azione divina si manifesti nell’universo attraverso la dinamica dei sistemi caotici. La non ortodossia di queste opinioni è quasi obbligata: una condizione necessaria affinché la scienza possa coesistere con la teologia è infatti che quest’ultima sia disposta, come la prima, a rivedere e aggiornare continuamente le proprie posizioni.
Che cosa succeda invece quando ci si voglia mantenere ottusamente ancorati a formulazioni anacronistiche lo dimostrano le opere, loro malgrado esemplari, di altri due fisici: Frank Tipler e Antonino Zichichi. Il primo ha preteso di estendere le raffinate speculazioni di Dyson sulla fine dell’universo con grossolane dimostrazioni della resurrezione dei corpi e dell’esistenza di inferno-purgatorio-paradiso, facendo seriamente dubitare della sua sanità mentale. Il secondo si è invece autoeletto a sgrammaticato difensore del fondamentalismo cattolico: fedele al motto “spesso in errore ma mai in dubbio”, egli coniuga imperterrito imbarazzanti strafalcioni (“ci sono teoremi non dimostrabili”), integralisti dinieghi (“l’evoluzione non è scientifica”) e fraudolenti millanterie (“Einstein era credente”). Poiché il personaggio sembra circolare liberamente in Vaticano, è forse il caso di avvertire: dagli amici si guardi Iddio!
I deliri di Tipler e le rozzezze di Zichichi potranno anche soddisfare un pubblico di “iddioti”, ma il cattolico mentalmente sano e intellettualmente educato che voglia informarsi sugli sviluppi recenti del dialogo fra scienza e religione dovrà rivolgersi altrove, ad esempio a Orizzonti e limiti della scienza di Carlo Maria Martini (Cortina, 1999). Il libro, che contiene gli atti della decima “cattedra dei non credenti” organizzata annualmente dal Cardinale di Milano per mettere a confronto opinioni diverse su temi svariati, risulta però più soddisfacente dal punto di vista scientifico che da quello teologico. Gli interventi degli scienziati costituiscono infatti uno riuscito esempio di divulgazione delle conoscenze attuali sull’origine dell’universo, della vita e della coscienza, ma non contribuiscono minimamente a chiarificare o aggiornare la concezione cattolica della Divinità.
Il problema non sta ovviamente nelle interpretazioni, ma nei fatti: la scienza coesiste bene con le religioni critiche, dall’ebraismo al protestantesimo, ma male con quelle dogmatiche come il cattolicesimo. Le difficoltà del rapporto con la Chiesa, emerse fin dagli inizi con l’affare Galileo, sono dunque oggettive, e non basteranno certo simbolici eventi mediatici quali il Giubileo degli Scienziati del 25 maggio scorso a mascherarle o, tanto meno, a cancellarle.