Come se precipitare all’interno di buco nero non fosse abbastanza, durante l’inesorabile caduta, le stelle (e in realtà tutti gli oggetti) subiscono anche degli effetti mareali che le stirano fino a ridurle a brandelli. È questa la sorte dell’astro osservato da Suvi Gezari (Department of Physics and Astronomy della Johns Hopkins University), in uno studio appena pubblicato su Nature.
Gli astronomi sono ormai d’accordo che praticamente ogni galassia ospiti un buco nero supermassiccio al suo centro. Con masse pari a milioni o miliardi di volte quella del nostro Sole, questi corpi esercitano un’attrazione gravitazionale spaventosa su tutto ciò che si trova nelle vicinanze, luce compresa. Tutto il gas e il materiale ingoiato, prima di spiraleggiare inesorabilmente verso il buco nero, viene accelerato ad alte velocità e, di conseguenza, emette grandi quantità di radiazione. Tale radiazione energetica è l’evidenza sperimentale di questi oggetti supermassicci, altrimenti inosservabili.
Se però il buco nero si trova in una regione povera di gas, non si registra una emissione significativa di radiazione. In questo caso, per individuare la sua presenza bisogna attendere un evento tragico come quello studiato da Gezari e dai suoi collaboratori: il caso di una povera stella che si avvicina troppo al buco nero e viene squarciata per effetti mareali.
La marea è dovuta alla differenza di attrazione gravitazionale esercitata da parte del buco nero sugli estremi opposti dell’astro, ed è talmente intensa da farlo a pezzi. I resti del malcapitato, mentre precipitano, emettono un flare caratteristico alle lunghezze d’onda visibili e ultraviolette. Gli effetti mareali permettono di misurare direttamente il potenziale gravitazionale del buco nero, e di capire se esso ruota e se le previsioni teoriche della Relatività Generale sono rispettate.
Simili eventi di distruzione mareale non capitano tutti i giorni: si stima che in ogni galassia se ne verifichi uno ogni 10mila anni. Per questo, per poterne scorgere uno sono necessarie i grandi survey con cui gli astronomi tengono costantemente d’occhio migliaia di galassie. In questo modo, la probabilità di essere spettatori di un evento simile è una ogni due anni.
È proprio grazie ai dati delle grandi osservazioni di Pan-STARRS e GALEX che il team di Gezari è stato in grado di descrivere l’evento di distruzione nel dettaglio, di studiarne la dinamica e di ricavare le caratteristiche sia del carnefice sia della vittima.
Nella loro ricostruzione dell’astricidio, il buco nero risulta avere una massa pari a circa 2 milioni di volte quella del Sole. La stella era invece una gigante rossa, di cui ormai era rimasto soltanto il nucleo di elio. Lo strato esterno d‘idrogeno era stato precedentemente strappato via da effetti mareali simili a quelli che alla fine hanno causato la sua distruzione. La malcapitata percorreva un’orbita molto stretta attorno al buco nero.
Il pericentro (cioè il punto di massimo approccio) era soltanto 6 volte il raggio di Schwarzschild, una lunghezza che – nel caso dei buchi neri non rotanti – corrisponde al limite oltre il quale nulla riesce più a fuggire, nemmeno la luce: il cosiddetto orizzonte degli eventi.
via wired.it
Credit immagine: Nasa, S. Gezari – The Johns Hopkins University, Baltimore, Md., A. Rest – Space Telescope Science Institute, Baltimore, Md., and R. Chornock – Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics, Cambridge, Ma.