Il rapporto tra pensiero razionale e pensiero religioso è una variabile storica e rimanda ai molti contesti e processi, che caratterizzano le grandi tradizioni culturali dell’umanità. In ciascuno di questi contesti, infatti, non solo il rapporto può variare significativamente, ma varia anche ciò che si intende, rispettivamente, per pensiero razionale e per pensiero religioso. Per fare un esempio: agli albori della civiltà occidentale, nella Grecia del VII-VI sec. a.C., il pensiero religioso era caratterizzato dal linguaggio mitico delle cosmogonie, mentre il pensiero razionale trovava una sua prima espressione nella ricerca filosofico-scientifica dell’arché. Pochi secoli dopo, tuttavia, un autore di prima grandezza come Aristotele di Stagira (384-322), nella sua monumentale enciclopedia del sapere, mostrava una viva consapevolezza delle molte sfaccettature che può assumere il pensiero razionale (1) (logica, fisica, metafisica…) e presentava l’indagine circa il divino trascendente come il vertice stesso del pensiero razionale . Tutto ciò aveva non poche implicazioni sui modi concreti con cui, nella cultura greco-ellenistica del tempo, era vissuta l’esperienza religiosa.Data la complessità del tema, in queste brevi note farò riferimento alla teologia cattolica e, dunque, principalmente allo sviluppo storico-culturale dell’Occidente, ma nella prospettiva, sempre più attuale, di una mondializzazione del vivere umano, processo che impone oramai un confronto a tutto campo con gli altri universi religiosi e culturali dell’umanità.
1. Il secondo millennio cristiano
Se assumiamo una scala di lettura adeguata ai grandi processi culturali che hanno caratterizzato il secondo millennio cristiano, soprattutto nella sua variante occidentale, non può non colpire la diversità – la distanza, se vogliamo – che segna l’inizio e la fine del periodo. Nel secolo XI, infatti, l’Occidente europeo, geograficamente confinato in un’area molto ristretta, era sopravanzato di gran lunga, in fatto di conoscenze filosofiche, tecnico-scientifiche, ecc., dalle altre due grandi aree culturali che si affacciavano sul Mediterraneo: quella greco-bizantina, ancora influente sulle regioni meridionali d’Italia, e quella araba, presente in Sicilia e, soprattutto, nella Spagna centro-meridionale. Nell’arco del millennio, tuttavia, si registra tanto il fiorire della cristianità latina medievale, che uguaglia ben presto gli altri ambiti culturali concorrenziali, quanto una radicale trasformazione di questa stessa Europa cristiana attraverso crisi profonde, religiose e politiche, culminate nell’autonomia della ragione filosofica e di quella scientifica, nella configurazione laica del vivere civile, nella conseguente marginalizzazione e irrilevanza culturale, in molte regioni del continente, della teologia e della stessa fede religiosa. Alla presa di coscienza, poi, per la prima volta nella storia, delle dimensioni effettive del pianeta, avvenuta nel XVI secolo, ha fatto seguito una progressiva espansione politico-culturale dell’Occidente e un tale accumulo di conoscenze scientifiche e di realizzazioni tecnologiche, da porre oramai le stesse sorti del pianeta nelle mani dell’uomo.
Questo esito estremo e problematico della modernità occidentale apre a letture differenziate e contrapposte: di esaltazione della razionalità scientifico-tecnologica, da una parte, ma, anche, di viva preoccupazione per uno “sviluppo” che attenta a delicati equilibri ecologici. Questo predominio della razionalità strumentale non solo sancisce l’irrilevanza culturale della fede religiosa, ma tende a confinare il vivere umano in orizzonti ristretti, innescando pericolose derive negli atteggiamenti esistenziali, personali e collettivi. Non per nulla l’irrompere, in un’epoca di totale secolarizzazione, quando già si era annunciata la “morte di Dio”, di una religiosità diffusa, dalle forme più varie e incontrollate, che hanno fatto pensare a una sorta di neo-paganesimo e riportato in primo piano il tema della religione nella nostra cultura. Tutto ciò induce a un ripensamento profondo dei vari fattori in gioco, che superi gli schemi interpretativi di un passato anche recente. Questo rinnovamento, avviato in ambito cattolico dal Concilio Vaticano II, ha indotto profondi mutamenti nella teologia, aprendola a un dialogo fecondo con le grandi realizzazioni filosofiche e scientifiche della modernità.
2. Lo snodo della modernità occidentale
Il periodo della modernità occidentale – grosso modo il periodo che dal Seicento giunge ai nostri giorni – appare caratterizzato da un processo di differenziazione e netta contrapposizione tra differenti figure della razionalità (teologica, filosofica, scientifica…), a partire dalla matrice culturale medievale, ove la razionalità teologica era prevalente. L’autonomia della ratio naturalis, già riconosciuta in linea di principio da Tommaso d’Aquino (1225-1274), si fa evidente col Rinascimento e finisce per imporsi a livello generale, allorché le guerre di religione, che insanguinano l’Europa per oltre un secolo e mezzo, sanciscono l’incapacità del cristianesimo a garantire una base effettiva per il vivere civile. Nella cultura europea del diciassettesimo secolo prende così gradualmente il sopravvento la razionalità filosofica che, con il suo appello a ciò che è comune a tutti gli uomini, si fa garante dell’autenticità stessa della religione rivelata, marginalizzando di fatto la teologia. Antesignano di questa tendenza, che sfocerà nel deismo illuminista, può essere considerato il barone gallese Edward Herbert of Cherbury (1582-1648) (2), che vedeva nella religione naturale, espressa dalle “cinque verità cattoliche”, il criterio ultimo per giudicare dell’autenticità di tutte le religioni storiche.
Ma il Seicento è anche il secolo che vede la nascita e lo sviluppo della scienza moderna, interpretabile come un’ulteriore differenziazione della coscienza intellettuale e razionale, nella misura stessa in cui il nuovo metodo sperimentale della fisica spingeva il sapere scientifico a sganciarsi da tradizionali presupposti metafisici e da tutele filosofiche. Questa nuova figura della razionalità si fa sempre più consistente nella cultura europea del Settecento, fino a diventare, nella seconda parte dell’Ottocento, una sorta di Weltanschauung (visione globale), con proprie teorie esplicative, a carattere totalizzante. Il positivismo scientista, infatti, non solo ha finito per concepire la scienza come la forma più alta del sapere umano, ma ha anche avanzato la pretesa che la razionalità scientifica dovesse costituire il metro di misura per ogni altro esercizio conoscitivo. Le sue limitazioni metodologiche, in altri termini, non venivano più riconosciute come tali: esse erano assunte, al contrario, come criterio di giudizio per stabilire la validità stessa dell’interrogare e del rispondere umani.
Quando poi, a metà dell’Ottocento, la teoria evoluzionista darwiniana legò insieme, in uno schema unitario plausibile, la grande varietà delle forme viventi, l’evidenza per una lettura naturalistica dell’uomo e dell’intera realtà sembrò definitivamente acquisita. L’evoluzionismo darwiniano diventava così la grande bandiera dell’ateismo scientista, issata contro l’oscurantismo di tutte quelle visioni filosofiche e religiose, che ritenevano indispensabile l’appello a un Dio creatore per una spiegazione dei fenomeni.
3. La polemica anti-religiosa nel quadro del positivismo scientista
Questa netta contrapposizione tra una visione “scientifica”, naturalistica ed evolutiva, da una parte, e una visione “religiosa”, creazionista e fissista, dall’altra, finì per diventare un topos nella seconda metà dell’Ottocento, alimentando una polemica che si protrasse nel Novecento, con esiti talvolta dilaceranti, com’è accaduto, ad esempio, con la discussa figura di Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955), il “gesuita proibito”. Le ragioni che si potevano addurre a sostegno dei processi evolutivi, infatti, apparivano come la conferma per una compiuta visione naturalistica, mentre i punti deboli della teoria (i numerosi “anelli mancanti”, quando non addirittura i falsi che, di tanto in tanto, venivano denunciati), assumevano il significato di prove a favore di visioni tradizionali, aperte al riconoscimento di Dio e del suo intervento nel creato. Su un diverso piano – non più cosmologico, ma biologico -si riproponeva, in buona sostanza, lo stesso dramma seicentesco legato alla figura di Galileo: la dimostrazione scientifica non era ancora in grado di presentare la prospettiva evoluzionista come indiscussa verità scientifica, ma la sua accettazione sembrava comportare, inevitabilmente, una messa in discussione della fede religiosa.
Nel Novecento, tuttavia, i toni della polemica tendono a smorzarsi, anche a seguito di più accurate indagini storiografiche. A questo riguardo va quanto meno ricordata l’opera pionieristica di Pierre Duhem (1861-1916), che con le sue ricerche sulla scienza medievale era giunto a negare che ci fosse stata una vera “rivoluzione” nel Seicento, convinto com’era che non solo i principali concetti della fisica seicentesca erano già presenti in studiosi del XIV secolo, ma che la scienza moderna, in realtà, era nata nel medioevo, per opera di uomini di Chiesa. Anche autori, come Alfred N. Whitehead e Michael Foster, erano propensi a ritenere che il cristianesimo, lungi dall’aver costituito un ostacolo per la scienza, l’aveva in realtà favorita, non fosse altro per la convinzione che la natura operava secondo un ordine regolare e metodico (3).
Il punto forse più interessante di questo approccio storico-sociologico al tema è che esso tendeva a collocare su un sostanziale piano di parità conoscenza scientifica e conoscenza religiosa, superando sia i vecchi punti di vista positivistici circa la lotta vittoriosa intrapresa dalla scienza contro la religione, sia la più antica immagine della scienza quale alleata naturale della religione. Stando a queste analisi, ciò che si è realizzato storicamente in Occidente appare come un lento processo di diversificazione, piuttosto che una sostituzione pura e semplice da parte della scienza nei confronti della religione, come riteneva la vecchia apologetica positivista.
In ogni caso, una situazione nuova si era ormai delineata a seguito delle trasformazioni intervenute in entrambi i campi contrapposti. Mentre infatti nell’Ottocento e nel primo Novecento la rappresentazione scientifica di un mondo in evoluzione poteva apparire in netto contrasto con l’interpretazione corrente di importanti testi scritturistici e comportare il rifiuto di affermazioni dottrinali fondamentali, prima fra tutte quella di un Dio creatore, oggi non è più così. In quest’arco di tempo, infatti, si è andato producendo un duplice movimento convergente: da una parte il mondo scientifico ha chiarito meglio i vari livelli di discorso (il livello dei dati documentari, quello delle teorie esplicative specifiche, quello, infine, delle visioni totalizzanti); dall’altra, il mondo religioso ha imparato a leggere con nuovi approcci ermeneutici i testi scritturistici e dottrinali e ha preso progressivamente distanza da assunzioni filosofiche di tipo essenzialista e fissista.
Se prescindiamo, quindi, dall’inaccettabilità per la fede religiosa, di ogni pregiudiziale immanentistica e atea (interpretabili, oltre tutto, come sovrastruttura ideologica e non come un prerequisito irrinunciabile del sapere scientifico), non sembra ci siano al momento valide ragioni per ritenere incompatibile con la fede cristiana un quadro mentale di tipo evolutivo, qual è quello accreditato dalla odierna lettura scientifica dei processi cosmo-biologici. Questa convinzione, che trova la sua giustificazione di fondo a livello epistemologico, è stata recentemente corroborata anche da autorevoli documenti del magistero pontificio (4).
4. La teologia del post-Concilio
Se nell’Ottocento l’atteggiamento complessivo della Chiesa cattolica nei confronti della sfida culturale rappresentata dalla modernità filosofica e scientifica, poteva apparire di sostanziale arroccamento su posizioni tradizionali, nella seconda parte del nostro secolo, sulla spinta del Concilio (1962-1965), l’atteggiamento è decisamente mutato nella direzione del dialogo e del confronto critico, a tutti i livelli e in tutte le direzioni. La Chiesa, in altri termini, ha cessato di guardare al modello della cristianità medievale come al paradigma del suo rapporto con la storia degli uomini e si è sforzata di comprendere meglio il contesto contemporaneo, con la conseguenza di rendere impellente la domanda su quale debba essere il suo ruolo e la sua funzione in un mondo sempre più unificato e interdipendente. I risultati non si sono fatti attendere se anche sul versante laico si è oggi più disposti a leggere questa “agenzia religiosa” non come semplice residuo del passato, da emarginare ed eliminare, ma come un’istituzione da riconoscere e valorizzare, per la ricchezza della memoria storica che custodisce e per l’apporto che può dare alla soluzione di problemi complessi e impellenti. Auspicato e promosso dal Concilio, il confronto critico con i saperi contemporanei è stato portato avanti dalla teologia cattolica a livello mondiale, sulla spinta della stessa entrata in crisi del supporto filosofico tradizionale, che aveva finito per ingessare la teologia negli schematismi di un sapere altamente sistematizzato ma, proprio per questo, ripiegato su se stesso e sulla propria tradizione, poco incline al dialogo e al confronto costruttivo con la modernità. Il rinnovamento negli studi biblici, patristici, liturgici, infatti, il mutato atteggiamento nei confronti del mondo contemporaneo, la necessità stessa di rinnovare il linguaggio e le categorie della propria auto-comprensione, in vista di una più efficace comunicazione del “messaggio”, hanno condotto questa teologia a profondi mutamenti metodologici, a farsi carico di problematiche di fondo, epistemologiche ed ermeneutiche, a cogliere la sfida ma, anche, le nuove opportunità offerte dal variegato contesto culturale del Novecento, finendo così per riacquistare una dignità e uno spessore culturale notevoli, al punto da diventare in molti contesti del vecchio e del nuovo mondo una delle voci più significative del panorama culturale.
5. Il nuovo dialogo con i saperi scientifici
Mentre nel suo approccio storico alle fonti la teologia s’imbatteva continuamente in categorie e visioni cosmologiche, nella sua elaborazione concettuale, relativa al mondo della natura, essa era rimasta praticamente ferma alla sintesi medievale, vale a dire, a una costruzione filosofico-teologica che integrava i saperi cosmologici e biologici dell’antichità. Sintomatico a questo riguardo, il perdurare in teologia di nozioni arcaiche e fissiste relative a “natura”, “naturale”. Oggi, però, la teologia è nuovamente sfidata dai saperi scientifici ad allargare il proprio campo di riferimento oltre l’ambito dei pur importanti processi storici e culturali.La portata di questa sfida è enorme, soprattutto se si tiene presente che, fin quasi alla vigilia del Concilio Vaticano II, la teologia e la filosofia cattoliche erano state ampiamente impegnate a contrastare l’impostazione evoluzionistica, predominante in ambito scientifico. La contrapposizione evoluzionismo/creazionismo, tuttavia, si è rivelata alla fine una falsa alternativa, così come ogni netta contrapposizione tra reazionalità scientifica e fede religiosa. Oggi, infatti, la teologia nel suo complesso prende atto dell’esistenza di un generale paradigma evolutivo, relativo all’universo empirico, che deve essere opportunamente richiamato ogni volta si affrontino problemi di fondo, concernenti l’uomo e la sua collocazione nell’universo. Il teologo, naturalmente, si dovrà astenere – in quanto teologo – dall’intervenire nel merito dei saperi scientifici. Non per questo il suo interloquire sarà del tutto impertinente. Il sapere scientifico, infatti, soprattutto quando sfocia in visioni complessive, totalizzanti, non è mai un sapere scientifico puro: opzioni più o meno esplicite, di natura filosofica e/o esistenziale, vi sono spesso implicate. Proprio per la presenza di un ampio alone filosofico-esistenziale – riscontrabile tanto nella scienza che nella teologia – il dialogo teologia-scienza tenderà ben presto a trasformarsi in un dialogo a tre voci. Spetta infatti alla razionalità filosofica fornire quella piattaforma comune, che consente alla scienza e alla teologia di risolvere, o anche solo di mettere a fuoco eventuali divergenze.
Come accennato, il teologo non ha modo oggi di rifiutare l’asserito carattere evolutivo dell’universo dell’esperienza, dal momento che la visione che i saperi scientifici accreditano è quella di una totale storicizzazione di tutti i processi naturali. In questo, egli si trova in una posizione indubbiamente più favorevole di quella dei grandi teologi medievali, allorché l’interlocutore filosofico-scientifico del teologo era offerto dalla fisica-metafisica aristotelica e dallo schema cosmologico tolemaico. Con la riscoperta e valorizzazione di Aristotele nel XIII secolo, infatti, la teologia latina si era trovata dinanzi al compito piuttosto arduo d’integrare la visione cristiana – creazionista e decisamente storico-evolutiva -con una visione filosofico-scientifica statica, che accreditava l’eternità della materia e l’immutabilità dei fondamentali cicli cosmici. Ma il teologo deve oggi lasciar cadere anche quella netta contrapposizione tra scienze della natura e scienze dello spirito, che era stata teorizzata dallo storicismo tedesco di fine Ottocento. Tale contrapposizione, infatti, non può continuare a essere un presupposto più o meno implicito della riflessione teologica, senza vanificare il significato stesso del suo dialogo con i saperi scientifici.
Più in generale, il teologo deve oggi chiedersi quali categorie e problematiche risultano tuttora condizionate da contesti culturali che fanno parte irrimediabilmente del passato. Volendo fare un solo esempio: la concezione determinista e meccanicista della natura – pressoché generale nell’Ottocento, ma oggi del tutto fuori data – aveva portato la razionalità scientifica a ritenere praticamente impossibile il “miracolo”, dal momento che tutti gli eventi risultano predeterminati dai loro antecedenti e, quindi, in linea di principio, deducibili. In quel contesto, l’assunzione teologica – coerente con la fede religiosa – che Dio, il Creatore, restava libero d’intervenire nella sua creazione e nella storia, portava a leggere ogni ipotetico intervento divino come “innaturale”, come contrario o, quanto meno, come parziale eccezione/sospensione delle ferree leggi di natura. Si era così indotti a configurare una duplice relazione tra Dio e l’universo: una relazione di base, riferita a Dio in quanto creatore, in quanto cioè responsabile ultimo e garante dei processi naturali governati da leggi deterministiche, e una relazione di Dio a situazioni particolari, connesse con il mondo degli uomini, ove Dio poteva intervenire liberamente, andando però al di là o, addirittura, contro le leggi di natura. Ora, non c’è dubbio che una categoria di miracolo come eccezione o forzatura delle leggi di natura risultava assai scomoda da utilizzare in un contesto culturale ampiamente condizionato da una ragione scientifica di tipo deterministico-meccanicista. Si spiega così perché alcuni teologi fossero indotti a considerare come unico e autentico “miracolo” solo la risurrezione di Cristo (caratterizzata, oltre tutto, da una dimensione meta-storica), e tutti gli altri cosiddetti miracoli quali semplici “segni”, più o meno riducibili a un indotto letterario e narrativo di quell’unico punto di forza della fede cristiana.
Oggi, tuttavia, la teologia più riflettere utilmente sui grandi cambiamenti di paradigma intervenuti nell’ambito della scienza empirica ad opera della meccanica quantistica e delle più recenti teorie del caos, e riservare magari una qualche attenzione a ciò che viene chiamato l’approccio antropico ai problemi cosmologici (5). In questa nuova ottica interpretativa, infatti, avanzata dalle moderne cosmologie, la caratterizzazione di base di un universo che si presenta come un processo costantemente aperto a nuova emergenze, non costituisce più una gabbia o una rete che imprigiona l’uomo. Le leggi e le costanti fondamentali, al contrario, lungi dall’essere una sorta d’inflessibile fato cosmico, manterrebbero un’intrinseca connotazione antropica. All’interno di questo nuovo contesto interpretativo, che pone nuovamente al centro o al vertice l’uomo e il suo destino, la categoria teologica di “miracolo” riuscirebbe tutt’altro che incongrua, ma con un significato assai diverso da quello di una forzatura della natura: potrebbe significare, infatti, l’irruzione, in gran parte anticipatrice, del futuro, all’interno della storia degli uomini.
Infine, nel rinnovato dialogo con i saperi scientifici, la teologia non ha solo da apprendere. Essa testimonia, infatti, dell’esistenza di livelli di realtà che solo una posizione riduzionista, epistemologicamente debole, potrebbe considerare come inconsistenti. La finalizzazione dell’evoluzione cosmologica all’emergenza della vita intelligente, anche nel caso dovesse essere riconosciuta dai saperi scientifici, resta una finalizzazione parziale. La realtà cui la vita intelligente ha dato origine (quanto meno su questo nostro pianeta) si presenta altamente drammatica ed è tale da chiamare in causa il referente ultimo del nostro interrogare intelligente: il Creatore dell’universo. Stando però al sapere della fede la soluzione operata da Dio al problema dell’uomo ha comportato non semplicemente una nuova emergenza all’interno della storia, ma un’emergenza dai caratteri assolutamente unici. Essa, infatti, se rimanda genericamente all’esperienza religiosa dell’umanità, trova una sua specifica caratterizzazione nel dialogo-alleanza, che segna l’esperienza religiosa del popolo d’Israele, e nella definitiva alleanza con tutti gli uomini, allorché Dio stesso si è fatto partecipe della carne e del sangue, ponendo la sua dimora tra noi (cf Vangelo di Giovanni, 1,14).
In breve: la teologia ha oggi l’opportunità di mediare il dato centrale della fede cristiana nel contesto culturale contemporaneo, assumendo e integrando prospettive di senso offerte dai saperi scientifici, con ciò che potremmo chiamare il “principio cristologico” e la lex crucis, orientando così le aspettative dell’uomo verso un futuro di assoluta trascendenza. In una visione integrale, illuminata e arricchita dal sapere della fede, infatti, il futuro non può essere la deiezione di questo nostro universo materiale in evoluzione, come prospettato da recenti teorie cosmologiche, cui potrebbe essere contrapposta solo la “comunità dei puri spiriti”, ma l’umanità redenta, la comunità dei risorti, cioé la forma definitiva e compiutamente realizzata di quest’unica creazione (6).
6. Per un ecumenismo generalizzato
Ma c’è un ulteriore apporto della teologia al generale contesto culturale, su cui vorrei portare l’attenzione. Tutta la nostra cultura, infatti, è ancora alle prese con il superamento del classicismo. Per classicismo non intendo, ovviamente, l’amore e l’ammirazione per i classici della letteratura, del pensiero, dell’arte, specie se questo amore e questa ammirazione non si limitano all’ambito culturale dell’Occidente – al mondo greco-ellenistico, alla cristianità medievale, al rinascimento, ecc. – ma si estendono, almeno tendenzialmente, ad ogni tradizione culturale, a tutte quelle espressioni dell’umano che suscitano ammirazione, che riescono, nonostante la distanza culturale, a interessarci, colpirci, arricchirci. Per classicismo si intende qui l’assolutizzazione di una tradizione culturale, di modelli forse sublimi, ma pur sempre storicamente datati e, più in profondità, la convinzione che ci sia o debba esistere la Cultura, con la C maiuscola, una cultura che de iure sia espressione compiuta dell’umano, un quadro di riferimento, ad un tempo storico ed ideale, cui riportare tutte le altre realizzazioni dell’umanità, per essere misurate e giudicate.
Questo classicismo ha assunto nel tempo volti diversi. Esso è variamente presente nella tradizione culturale dell’Occidente, senza però essere una sua esclusiva. Nell’Occidente, tuttavia, il classicismo ha trovato una specifica giustificazione, filosofica e teologica. Concezioni di tipo essenzialista e fissita hanno infatti indotto a parlare di una “natura umana”, che raggiunge vertici insuperati nell’antichità classica greco-romana, nelle realizzazioni culturali dell’Occidente europeo, nel Cristianesimo, inteso come “religione assoluta”, in quanto superamento definitivo di ogni altra forma religiosa. Nei secoli dell’espansionismo europeo la cristianità occidentale ha finito così per comprendere il proprio impegno missionario in maniera integrata: portare agli altri popoli, che vivevano a stadi culturali “inferiori”, la civiltà e la vera fede. Un paradigma, questo, che se ha funzionato senza eccessivi intoppi nelle regioni dell’Africa nera, in America, Australia, Isole del Pacifico, ha trovato però non poche difficoltà di applicazione nei paesi dell’Islam, nell’India, nell’Asia orientale. Qui, infatti, il cristianesimo, oltre tutto frammentato al suo interno, si è dovuto confrontare con tradizioni culturali e religiose consistenti, capaci di grandi recuperi e sorprendente vitalità. Nel secolo XX il problema, sostanzialmente di principio, non ha tardato a manifestarsi in tutta la sua radicalità. Una diversa nozione di cultura – non più normativa, ma empirica, qual è utilizzata, ad esempio, negli studi etnologici -, nuovi equilibri geopolitici, conseguenti ai due grandi conflitti mondiali che hanno devastato il continente europeo, visioni antropologiche elaborate su presupposti di tipo storicista o in chiave evoluzionista, hanno condotto al discredito della nozione classicista di cultura, palesemente eurocentrica e normativa. Oggi non solo le cosiddette popolazioni primitive hanno riasquistato ai nostri occhi piena dignità culturale, ma la stessa tradizione culturale dell’Occidente ha cessato di fornire il quadro di riferimento indiscusso per comprendere e valutare tutte le altre culture e tradizioni.
Proprio perché il pluralismo culturale ci appare oggi non più un semplice dato di fatto da crontrastare e rovesciare, ma un valore intrinseco allo stesso sviluppo storico dell’uomo, viene sollecitata una rilettura critica della modernità occidentale e la messa in questione di radicate presupposizioni, quelle stesse che stanno alla base di ciò che potremmo chiamare il classicismo della ragione illuminista e quello del positivismo scientista. Mentre, infatti, nel diciottesimo secolo è il filosofo a ritenersi il rappresentante accreditato della razionalità umana, nel secolo successivo questa pretesa viene avanzata dallo scienziato positivista. In entrambi i casi dobbiamo parlare di classicismo, perché in entrambi i casi c’è la convinzione e la pretesa che uno specifico esercizio conoscitivo, limitato e condizionato storicamente al pari di qualsiasi altro, costituisca l’espressione stessa, compiuta e insuperabile, della razionalità.
Il classicismo della ragione illuminista è entrato in crisi nella seconda parte dell’Ottocento, per l’imporsi di un approccio positivo alle tradizioni culturali dell’umanità, attraverso gli studi antropologici, etnologici, linguistici. In questo nuovo contesto, la riflessione filosofica viene spinta ad elaborare una concezione dell’uomo e della razionalità non più in chiave essenzialista, ma in prospettiva storica, in connessione cioè con gli universi culturali e simbolici, frutto del suo multiforme esercizio intenzionale. Con questa “rivoluzione storica” si opera un radicale cambiamento di paradigma, che non tarda ad esercitare un importante feed-back sulla teologia. Questa, infatti, non solo deve prendere atto, nella lettura critica della propria tradizione, dell’esistenza di universi culturali specifici e, per certi aspetti, incommensurabili (la cultura semita, quella ellenistica, quella della cristianità medievale…), ma deve confrontarsi con la necessità di liberare il messaggio cristiano dalla simbiosi con la cultura europea che, per quanto importante, non rappresenta che una delle molte tradizione culturali nelle quali questo messaggio si è calato ed è continuamente chiamato a calarsi. L’abbraccio culturale del cristianesimo con l’Occidente, in altri termini, non va assolutizzato, se si vuole procedere all’inculturazione della fede in altri contesti e tradizioni e nello stesso Occidente, visto che si presenta ormai come un’area culturale ampiamente secolarizzata.
Mentre però il classicismo della ragione illuminista è stato ampiamente superato ad opera della consapevolezza del divenire storico dell’uomo, lo stesso non può dirsi per il classicismo della ragione scientifica, presente nel positivismo e nello scientismo, che hanno caratterizzato e ancora caratterizzano la razionalità scientifica. La pretesa, infatti, che la scienza sia l’unica forma di conoscenza valida, che il metodo empirico e quantitativo sia l’unica garanzia di oggettività e di verità per una conoscenza del reale, che solo l’approccio scientifico possa essere all’altezza dei problemi e, dunque, l’unica vera guida per una conduzione razionale e responsabile degli affari umani, sono convinzioni ancora diffuse, presupposti operanti anche al di là dell’ambito scientifico.
Va riconosciuto, tuttavia, che questa tipica figura della razionalità occidentale, pur avviandosi a diventare l’effettiva koiné culturale del pianeta, è meno compatta e sicura di sé di quanto potrebbe sembrare a prima vista. Il punto decisivo è il rapporto con la verità. La pretesa di oggettività e definitività del sapere scientifico, infatti, non è più sbandierata come in passato, viene anzi considerata da molti un abbaglio. La conoscenza scientifica – si fa osservare – è provvisoria, ampiamente ipotetica, aperta a continue e anche radicali revisioni. La sua forza non è data tanto dalla sua verità e definitività, ma dal fatto che funziona, che può essere utilizzata in contesti concreti per una lettura quanto meno provvisoria del reale e, quel che più conta, per impostare progettazioni e avviare trasformazioni profonde nei rapporti che legano l’uomo alla natura. Ma proprio questo impressionante sviluppo delle tecnologie e l’intreccio crescente tra ambiti scientifici e ambiti del potere economico e politico fanno sorgere il sospetto che la pretesa classicista dello scienziato positivista possa rivelarsi come il pericolo più subdolo e temibile della nostra attuale situazione culturale.
7. La teologia nel contesto dei saperi
È in questo nuovo contesto culturale a dimensioni planetarie, nel quale la koiné scientifico-tecnologica, pur godendo di un successo incontrastato, si mostra sempre più esposta alle tendenze relativistiche e ai criteri pragmatici, che la riflessione teologica può giocare un ruolo molto importante per il superamento di ogni residuo classicismo e per orientare verso un’effettiva integrazione conoscitiva, l’unica in grado di gestire senza eccessivi scompensi l’impatto conseguente alla mondializzazione del vivere umano. Questo perché la riflessione teologica non si limita più a garantire il recupero critico della propria tradizione religiosa in ordine al suo inserimento nei nuovi contesti culturali, ma si fa carico, in ampia misura, degli stessi problemi di fondo e si chiede in che modo le risorse di sapienza e di umanità delle molte tradizioni religiose dell’umanità possano contribuire a risolvere i problemi di tutti.
Mentre allora in un passato anche recente la teologia cattolica poteva caratterizzarsi come un servizio alla fede nella misura in cui riusciva a contrapporsi alle tendenze culturali predominanti, oggi essa è indotta a prospettare il proprio servizio nei termini di una amplissima mediazione culturale. Non si tratta, infatti, di riaccreditare semplicemente un sapere religioso tradizionale al fine di bilanciare tendenze assolutizzanti, al limite autodistruttive, o di assicurare un’identità culturale a comunità aperte ad apporti e confronti destabilizzanti, si tratta invece di dare spazio all’esercizio di un’intellettualità che, con molta serietà e impegno, si faccia carico dei problemi concernenti la totalità del vivere umano e dell’interpretazione della realtà. Un’intellettualità che, dando spazio alla criticità filosofica e alla ricerca dei fondamenti, affronti problemi estremamente seri e delicati, concernenti il dialogo interreligioso, la collocazione delle comunità ecclesiali in contesti socio-culturali pluralisti, il rispetto di ogni coscienza e di ogni tradizione, pur nell’accettazione convinta dell’assolutezzza della verità. Questo imparare a co-evolvere verso obiettivi condivisi è quanto mai urgente, per evitare non solo che l’incontro tra gli universi religiosi dell’umanità si trasformi in dura contrapposizione, ma che le tendenze classiciste dei saperi scientifici e tencologici non sortiscano effetti dirompenti nei confronti delle stesse culture tradizionali. E poiché non si tratta più semplicemente di interpretare la realtà, ma di progettare e dirigere il futuro con capacità demiurgiche crescenti, non è senza significato se questo viene fatto con le risorse della sola razionalità scientifica e tecnologica, in orizzonti ristretti di immanenza, o ricorrendo anche alle risorse culturali delle tradizioni religiose dell’umanità, in un esplicito orizzonte di trascendenza, con un’accettazione sincera dell’altro, nella continua ricerca di tutto ciò che unisce e può essere accolto e valorizzato.
Rifiutando di essere un’istanza culturale meramente funzionale alla trasmissione di verità dottrinali all’interno di una specifica tradizione religiosa, la teologia cattolica si presenta oggi sempre più come un’istanza culturale in grado di interagire a pieno titolo nel contesto globale dei saperi. La teologia fa questo non già riproponendo semplicemente verità tradizionali, concezioni dell’uomo e della natura legate a situazioni e stadi culturali ormai desueti, ma con un continuo lavoro di mediazione e di attualizzazione, che comporta, ad un tempo, una rilettura critica del proprio passato e del proprio presente culturale, e un aggiornamento del proprio apparato categoriale, al fine di far interagire efficacemente il proprio patrimonio di significati e di valori, concernenti il vivere autentico dell’uomo, con tutte le altre istanze culturali dell’umanità.
NOTE
1) Si veda, al riguardo, la chiusa della Fisica (267b 20-25) e tutto il Libro XII della Metafisica.
2) Autore, tra l’altro, di un De religione gentilium (pubblicato postumo nel 1633) e di un Religio laici (1645).
3) Si veda, al riguardo, Maiocchi R., Storia della scienza in Occidente, La Nuova Italia, Scandicci 1995.
4) Si veda, in particolare, la Lettera, indirizzata alla Pontificia Accademia delle Scienze, nel 60° della sua rifondazione. Si può leggere il testo in “L’Osservatore romano” del 24 ottobre 1996. Per un commento rimando alla mia nota Magistero e darwinismo, in “La civiltà cattolica” 148 (1997), I, 141-145.
5) Al riguardo mi permetto di indicare il mio L’evoluzione cosmologica e il problema di Dio, AVE, Roma 1993.
6) Si può vedere, a questo riguardo, i suggestivi studi di Vanni U., L’opera creativa nell’Apocalisse, AVE, Roma 1993; Id., “La creazione in Paolo. Una prospettiva in teologia biblica”, in Rassegna di Teologia 36 (1995) 285-325.