La desertificazione riguarda tutte le aree del pianeta, mettendo a rischio sempre più accelerato il 30 per cento delle terre disponibili. Il fenomeno è definito dalle Nazioni Unite come degrado delle terre nelle zone aride, semi aride e sub umide secche a causa di diversi fattori, tra i quali le variazioni climatiche e l’attività umana. Nelle sue forme più intense, interessa oltre 100 Paesi minacciando la sopravvivenza di più di un miliardo di persone. Ogni anno si perdono nel mondo 24 miliardi di tonnellate di suolo superficiale ed è stato calcolato che per rigenerare uno spessore di un centimetro di humus in condizioni ottimali di umidità e di fertilità occorrono almeno 100 anni.
In Italia il 27 per cento del territorio è esposto a un elevato rischio di erosione, di aridità e di desertificazione. Le regioni della Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna mostrano un processo di desertificazione già avanzato (Commissione Europea 2000). Tre distinte convenzioni delle Nazioni Unite si occupano di contrastare il riscaldamento climatico (UNFCC), la perdita di biodiversità (UNCBD) e la desertificazione (UNCCD) processi imputabili all’azione umana che hanno avuto un impulso a partire dalla rivoluzione industriale e si sono enormemente accelerati negli ultimi 50 anni.
Ma se l’effetto serra, determinato dalle emissioni di combustibili fossili, va affrontato con accordi globali, il problema della desertificazione necessita di azioni locali. L’aridità è in genere associata alla mancanza di piogge, ma queste sono benefiche o distruttive a secondo della gestione del suolo. Il modo in cui sono organizzati i pendii, la copertura vegetale, i metodi di captazione e di ritenuta, le dinamiche di aggressione urbana al territorio determinano le disponibilità idriche e il grado dei processi erosivi. Conoscenze tradizionali, che avevano per secoli garantito l’assetto ambientale e paesaggistico equilibrando le alternanze climatiche e le avversità naturali, stagionali o catastrofiche, e assicurato la rinnovabilità delle risorse, sono oggi perdute a causa di uno sviluppo basato sullo spreco delle risorse naturali, delle migrazioni dei popoli e della crescita produttiva illimitata.
Fino all’epoca industriale il processo di uso e trasformazione dello spazio è stato operato attraverso tecniche e conoscenze verificate dall’esperienza collettiva di lungo periodo, trasmesse attraverso le generazioni e incorporate nel complesso culturale delle genti, nel sistema del sapere tradizionale. Questa conoscenza perpetua un insieme di buone pratiche che realizzano gli scopi produttivi salvaguardando l’ambiente e assicurandone la continua manutenzione. Ogni tecnica tradizionale, infatti, non è solo un espediente per risolvere un singolo problema, ma è sempre un metodo elaborato, spesso polifunzionale e che fa parte di un approccio integrato tra società, cultura ed economia strettamente legato a una concezione del mondo basata sulla gestione accurata delle risorse locali. Un terrazzamento è allo stesso tempo un modo per proteggere un pendio, ricostituire i suoli, raccogliere l’acqua, creare uno spazio utilizzabile come ricovero per gli animali. Ed è anche qualcosa di più, ha un alto valore estetico e paesaggistico.
Gli ambienti collinari e di pendio sono una componente fondamentale del paesaggio europeo e mediterraneo. Furono nel tempo gestiti con tecniche di organizzazione del territorio appropriate, quali i muri a secco, i drenaggi, le prese d’acqua, la captazione e conservazione delle piogge, il risparmio di aree per la foresta e il pascolo. L’applicazione a grande scala della tecnica dei campi terrazzati diventa un sistema formidabile di edificazione dello spazio, riflesso e concretizzazione fisica della società che lo esprime. La tecnologia si perpetua all’interno dell’organizzazione sociale grazie a un complesso di valori spirituali, simbolici e culturali che la rendono memorizzabile, condivisibile e creano il consenso agli sforzi collettivi necessari al suo impiego. La società, a sua volta, trova sostegno economico nei benefici prodotti dall’uso della tecnica. Si determinano così relazioni fortemente coese tra tecnica, cultura, forma sociale e assetto del territorio.
Le conoscenze tradizionali costituiscono la mediazione culturale e tecnologica attraverso la quale una visione del mondo diventa pratica sociale, gestione dell’ambiente e garanzia alimentare e produttiva. Sono parte integrante di una trama di nessi e di relazioni fortemente integrate rette da una costruzione globale di segni e di significati. Operano grazie a una struttura culturale socialmente condivisa: sono il sistema della scienza e della conoscenza locale storicamente dato. Per questo organismi internazionali come la Convenzione delle Nazioni Unite per Combattere la Desertificazione (UNCCD), la FAO, l’UNESCO (UNESCO 1994, 1999, UNCCD 1998, 1999) interrogano la sapienza tradizionale facendo riemergere pratiche e conoscenze che, riferite soprattutto alla corretta gestione dell’acqua, risalgono ai primordi della umanità e ne hanno scandito il percorso storico.
Le prime esperienze
Il ruolo dell’acqua è così importante per la vita di tutti gli organismi che anche gli animali hanno sviluppato comportamenti utili alla sua gestione.
Nel deserto varie specie di mammiferi scavano buche per facilitare la raccolta spontanea di acqua e animali come i castori costruiscono dighe per il controllo idrico. Non deve meravigliare quindi che già i primi ominidi realizzarono superfici e argini di raccolta di acqua. La più arcaica struttura di questo tipo sinora individuata potrebbe essere quella rinvenuta nel sito di Isernia dove, in località La Pineta, è stata scavata una paleosuperficie risalente dai 700.000 ai 500.000 anni fa costituita da un aggregato di ciottoli di travertino, resti ossei e manufatti in calcare formanti un primordiale lastricato (Peretto 1991). Più certe sono le tecniche impiegate nel Paleolitico da gruppi nomadi di cacciatori-raccoglitori appartenenti alla nostra specie Sapiens. Questi potevano realizzare la loro mobilità grazie alla conoscenza approfondita del territorio e in particolare dei metodi di rinvenimento e di approvvigionamento d’acqua.
L’umanità paleolitica raccolse l’acqua bevibile nelle caverne dove si verificava lo stillicidio e la percolazione naturale e realizzò lastricati di pietre per raccogliere le piogge e indirizzarle in pozze. Usò sbarramenti, fossati e allineamenti di pietre per agevolare la vegetazione spontanea e la pratica della pesca (Drower 1954). Nelle steppe, nelle savane e nei deserti lungo gli altopiani carsici o le pianure interfluviali, i gruppi umani sfruttavano aree favorevoli ai margini di zone soggette ad alternanze di impaludamento e di siccità tramite tecniche di regolazione dei flussi. Queste evolvono in imponenti sistemi di trappole funzionali alla pesca, come quelle rinvenute in località Mount William in Australia (Lourandos 1980) e in Nuova Guinea dove da 9.000 a 6.000 anni fa fu sviluppato un complessi sistema di canali di drenaggio (Diamond 1997). Le forme labirintiche riprodotte nei simbolici graffiti rupestri sono le stesse utilizzate nei recinti dove vengono svolte le prime esperienze di addomesticamento. La raccolta di acqua è associata all’origine della spiritualità e dell’arte come attestano le rappresentazioni figurative nelle caverne e il rinvenimento a El Guettar, in Tunisia, di un tumulo artificiale di pietre risalente a 150.000 anni fa contenente selci e manufatti paleolitici, dalle evidenti funzioni simboliche collegate a pratiche idriche (Gruet 1955).
Questo sapere, frutto di esperienze verificate nel lungo periodo, è consolidato attraverso il successo dei detentori, memorizzato tramite il pensiero simbolico e l’arte, trasmesso nei racconti attraverso le generazioni. Esso, a partire dai più arcaici luoghi di origine in Africa, si diffonde nel mondo intero parallelamente all’espansione dei gruppi umani. Il sistema di conoscenze dei cacciatori-raccoglitori rimane un substrato comune a tutti i popoli che muta, si evolve o si perde secondo le condizioni ambientali e sociali. E, a volte, riemerge spiegando così le analogie che spesso si riscontrano nei miti, le tecniche e le forme tra genti e luoghi lontani.
Controllo idrico e tecniche di irrigazione
Fenomeni di sedentarizzazione senza agricoltura si manifestano a Gerico dai 12.000 ai 10.000 anni fa. Già in questa fase vengono realizzate strutture di sostegno dei suoli costituite da muri di contenimento e piattaforme di argilla con ambienti impermeabilizzati per l’acqua bevibile (Cauvin 1994). A partire dall’ottavo millennio in Africa, Medio Oriente, Anatolia e nell’area pakistano- indiana si sviluppano i modi originari di coltivazione in zone aride dove l’elevata insolazione permetteva rendimenti che giustificavano l’impegno necessario (Childe 1954). Ma proprio in queste aree, data la mancanza di pioggia, si dovettero sviluppare metodi di gestione dell’acqua.
Prima dell’introduzione delle tecniche irrigue si utilizzarono acque naturalmente e direttamente disponibili che, in condizioni di aridità, sono presenti in due forme: come umidità atmosferica e nei sedimenti del terreno. Il primo tipo di apporto idrico, l’umidità che si deposita sul suolo, ha avuto un ruolo fondamentale nella nascita delle coltivazioni organizzate in piccoli orti stabili nei luoghi dove il fenomeno si realizzava in modo più determinante: aree situate vicino a bacini, corsi d’acqua o situazioni geologiche e ammassi di pietre che favorivano l’apporto di vapore acqueo e la condensazione della rugiada. L’osservazione del migliore ciclo vegetativo delle piante spontanee permetteva l’individuazione delle zone più adatte. Allo stesso modo si poteva determinare dove sfruttare il secondo apporto idrico, l’acqua contenuta nei sedimenti del terreno. I suoli alluvionali, il loess, i corsi asciutti degli wadi sono i più adatti a conservare riserve idriche negli strati superiori e diventano le aree di sviluppo delle prime società neolitiche che passano da forme di “coltivazione nomade”, basata sullo spargimento dei semi nelle zone favorevoli in cui si ritornava solo per il raccolto, a pratiche di organizzazione dello spazio (1).
Nelle caverne, dove si verifica lo stillicidio spontaneo dell’acqua, si scava per seguire e meglio intercettare i flussi. Oppure si ingrandiscono e approfondiscono inghiottitoi naturali dotandoli di aperture sulla parete del pendio e di cisterne di drenaggio e di raccolta. Sono le pratiche che evolveranno nelle tecniche ipogee di gallerie drenanti e di architettura passiva che, in situazioni geomorfologiche adatte, avranno gli esiti degli insediamenti trogloditi e delle città di pietra (Laureano 1993).
L’attività estrattiva nelle miniere di selce crea le prime corti a pozzo fornite di gallerie radiali. Il modello riscontrabile nelle Grimes Caves in Inghilterra e nelle miniere del Gargano nel Sud Italia (Di Lernia 1990) si riproduce in dispositivi per la raccolta dell’acqua e nei sistemi abitativi formati da ipogei a corte centrale. Gli ambienti di sviluppo di queste tecniche sono le zone carsiche secche e gli altipiani calcarei come le Murge pugliesi, ma anche le pianure semi aride argillose del Nordafrica e le distese di loess in Cina.
In aree che beneficiano di piogge, in pianure scarsamente drenate o nelle zone carsiche e ai bordi di altipiani elevati privi di corsi di acqua si realizzano insediamenti stabili dalla pianta ellittica o semi circolare marcata da più perimetri di fossati. Questi, in condizioni di alternanza climatica, rispondono a molteplici funzioni legate all’equilibrio idrico: drenano le acque nei momenti di pioggia e le conservano per le stagioni secche; fungono da abbeveratoi e da fosse per la raccolta dei liquami e dei rifiuti utili per la concimazione e fertilizzazione dei suoli; marcano simbolicamente i luoghi e rafforzano la coesione sociale, l’identità del gruppo e la propensione alla sedentarizzazione.
I fossati sono dunque strutture polivalenti evoluzione delle semplici pozze adoperate per l’acqua e per i rifiuti. La pratica si rivelò utile alla selezione delle specie coltivate domestiche e alla individuazione dei periodi della semina adatti per ogni pianta. Infatti, i semi ingeriti finivano con gli escrementi nelle fosse dove germinavano spontaneamente nella stagione per essi appropriata. La bagnatura dei campi con l’acqua delle pozze ha portato anche alla comprensione delle facoltà fertilizzanti del letame. Molteplici tecniche tradizionali ancora in uso mostrano questa capacità di utilizzare fenomeni di simbiosi e di associazione con altri organismi nella gestione dell’ecosistema.
In Burkina Faso un metodo chiamato zai riesce a rigenerare suoli molto degradati usando pozze d’acqua, rifiuti e anche l’azione combinata delle termiti. Vengono fatti dei buchi sul terreno che nella stagione umida si riempiono di acqua e in quella secca vengono usati per gettare rifiuti e letame. La pratica attira le termiti che digeriscono i rifiuti. Questi divengono meglio assimilabili dalle radici delle piante mentre i cunicoli scavati nel terreno dalle termiti aumentano la porosità dei suoli. Nei buchi si procede poi alla semina ottenendo altissimi rendimenti di raccolto.
La polivalenza e la multifunzionalità sono quindi condizioni di successo delle strutture neolitiche caratteristiche perpetuate nelle tecniche tradizionali. In Italia, negli altipiani delle Murge la pratica delle fosse scavate per favorire la raccolta di terreno e la vegetazione si è conservata fino alle epoche più recenti. Sulle Murge e nella Daunia, in Puglia, si contano a migliaia i perimetri scavati di villaggi neolitici (Tinè 1967). Questi sono presenti anche in Germania lungo la valle del Reno, nel sito di Kol Lindenthal, e in Cina lungo il Fiume Giallo, nel sito di Banpo, e richiamano modelli insediativi e di gestione idrica ancora diffusi in Etiopia. Le abitazioni sono formate da strutture capannicole sparse anche al di fuori dei perimetri e attrezzate con cisterne e fosse per i grani.
L’espansione si fa con la moltiplicazione del modello. La costruzione dell’insediamento è allo stesso tempo strutturazione del territorio. Sia materialmente che simbolicamente l’organizzazione del villaggio si identifica con quella dello spazio produttivo, con l’immagine, il funzionamento e l’ordine del mondo. Nelle pianure e i bacini interfluviali dell’Iraq e dell’Anatolia si diffondono nel sesto millennio le prime tecniche di canalizzazioni e di argini di diversione dei flussi che attuano l’irrigazione per inondazione. Sulla matrice dei canali si sviluppano le strutture insediative a trama ortogonale. Le prime costruzioni non circolari sono realizzate con acqua e terra cruda, il limo stesso delle coltivazioni, come negli insediamenti di Çatal Hüyük, in Anatolia nella piana di Konia, e di Jarmo, ai piedi dei monti Zagros, in Iraq, che preludono a organizzazioni urbane. La forma quadrata permette soluzioni diversificate e complesse con una maggiore potenzialità di evoluzione.
Le abitazioni possono estendersi e aggregarsi progressivamente tra loro senza spazi residuali. Nelle pianure interfluviali grandi agglomerati prosperano parallelamente allo sviluppo nel territorio delle tecniche di sostegno dei terreni con cortine murarie continue, costruzione di piattaforme, argini e canali. Si attua la separazione tra organizzazione dell’abitato e spazio rurale. Le forme agglutinate degli insediamenti rispondono a necessità costruttive, climatiche e difensive e sono altro dalla organizzazione agricola anche quando i materiali, come nel caso della terra cruda, sono perfettamente integrati nel paesaggio. Queste pratiche permetteranno nelle valli alluvionali come l’Indo, il Nilo, la Mesopotamia, il Fiume Giallo tecniche a grande scala di gestione dell’acqua sviluppate da grandi organizzazioni statali chiamate per questo motivo società idrauliche (Wittfogel 1961).
Si tratta degli antichi imperi sorti sui sedimenti alluvionali di limo, loess e sabbia lungo i bacini fluviali afroasiatici e anche nelle aree carsiche delle foreste pluviali mesoamericane. Le dimensioni geografiche e l’imponenza delle opere idrauliche determinano il dispotismo politico, l’ipertrofia burocratica e la militarizzazione statale. In paesaggi più frammentati privi della disponibilità idrica dei grandi fiumi si perpetuano, invece, tecniche tradizionali di captazione e gestione idrica gestite da comunità a piccola scala.
Dai pozzi all’irrigazione su grande scala
Con l’età dei metalli, popoli organizzati in clan familiari dotati di grande mobilità dovuta all’uso del carro e del cavallo diffondono tecniche che permettono l’uso di nuove aree di coltivazione. Zone risparmiate dalle precedenti espansioni vengono sfruttate grazie all’economia agro pastorale e transumante che struttura i percorsi dai crinali montani verso il mare. In situazioni impervie si realizzano i terrazzamenti, nelle grandi capitali dei bacini interfluviali giardini pensili. Ma la diffusione dell’uso dei metalli avviene lentamente, anticipata da importanti risultati raggiunti da società ancora in fase neolitica. A partire dal quarto millennio si sviluppa la tecnica delle scavo di cisterne e prese d’acqua per irrigare i campi da insediamenti posti su colline elevate, sfruttando la forza di gravità. Nello stesso periodo nel Belucistan (Iran e Pakistan) la civiltà che precede quella di Harappa impiega dighe interrate, chiamate gabarband, per trattenere i flussi idrici nel suolo e dighe ad accumulo di sabbia che favoriscono la sedimentazione del limo e il controllo dei depositi alluvionali e delle piene.
Nel terzo millennio in questa area si sviluppa la civiltà della Valle dell’Indo che nei centri di Harappa e Mohenjodaro utilizza sistemi di rifornimento d’acqua nelle abitazioni, tecniche di smaltimento delle acque usate e pratiche di irrigazione comparabili a quelle utilizzate a Roma oltre duemila anni dopo. A questa civiltà si deve la prima introduzione dei pozzi forniti di struttura muraria cosa, che permetteno maggiori profondità per il raggiungimento delle falde. Nello stesso periodo la civiltà idraulica egizia e quella sumera sviluppano la grande architettura monumentale a partire dall’esperienza derivata dalla costruzione di argini e canali necessari alla irrigazione e fertilizzazione dei loro territori. Le prime piramidi sono fatte di terra cruda, evoluzione diretta, sia in Africa che in Mesopotamia, ma anche in Mesoamerica, delle tecniche neolitiche di costruzione di argini e di piattaforme di fango.
La terra di scavo forma i primi cumuli sacri. La loro monumentalizzazione favorisce la sedenterizzazione, la creazione di una identità sociale e la mobilizzazione di attività lavorative nei periodi di stasi dei lavori idraulici. Il forte potere statale delle società idrauliche necessita di queste grandi opere che magnificano e giustificano il dispotismo e la possente burocrazia amministrativa. Negli ambienti accidentati del Medioriente, delle isole e penisole mediterranee e in promontori costieri di zone aride si diffondono insediamenti posti su sommità collinari fortificate. Città, cittadelle e acropoli devono resistere agli assedi e assicurarsi l’acqua bevibile.
Nei siti dell’Età del Bronzo di Arad (Amiran 1970), Jawa e Megiddo, nel Nord del deserto arabico (Barrois 1937), e di Qana, nel Sud dello Yemen, sulla costa dell’Oceano Indiano (Laureano 1995), l’area all’interno delle mura funge da superficie di raccolta per alimentare vasche e cisterne a cielo aperto o scavate in profondità raggiungibili con tunnel e scalinate. Condotte irrigano i campi coltivati o l’eventuale espansione urbana ai piedi della collina o anche, in caso di agglomerati costieri, riforniscono le istallazioni portuali per la fornitura di acqua alle navi. Nel corso di assedi, i canali vengono interrotti e i difensori, asserragliati sulla sommità, continuano a produrre la risorsa idrica negata agli assalitori. Ogni roccia o massa muraria ha una funzione di produzione idrica e di protezione dei suoli. La differente inerzia termica con l’atmosfera crea superfici più fredde che determinano la condensazione.
Le pareti intercettano i venti e l’umidità. Gli interstizi fra i blocchi e la porosità della pietra trattengono l’acqua. L’ombra la protegge dall’evaporazione. I massi impediscono lo smantellamento dei suoli e facilitano la formazione di humus. In questo modo contribuiscono alla produzione di acqua la grande parte delle strutture di pietra a secco diffuse nelle terre aride della Puglia, dove gli accumuli di massi spugnosi assorbono la brina notturna e riforniscono di umidità il terreno (Nebbia 1961, Cantelli 1994). E’ significativo che nei più imponenti di queste muri, i “parieti”, i filari di pietra che chiudono superiormente i due paramenti della muratura sono disposti con le lastre inclinate verso l’interno per permettere lo scorrimento della brina nella pietraia interna di riempimento. I muri a secco mantengono le qualità idromorfe del terreno e agiscono da termoregolatori ed equilibratori di umidità sia in situazioni aride che in condizioni di freddo intenso dove permettono l’esistenza di acqua nel suolo nella forma liquida, utilizzabile dalle piante, impedendo la formazione di ghiaccio. Questo spiega l’esistenza di strutture di muri a secco, circoli e allineamenti di pietra, generalmente utilizzati come captatori di umidità, anche in zone soggette a piogge abbondanti come l’Irlanda e le isole Orcadi.
Qui la funzione di termoregolazione contrasta la glaciazione dei suoli e la formazione del permafrost (2). In questo periodo si diffondono le strutture megalitiche circolari e a falsa volta coniche che costituiscono la fusione della capanna africana con le tecniche di costruzione muraria dei pozzi e delle cisterne. Da queste forme originano la tholos micenea, i trulli pugliesi, i talayotes delle Baleari e innumerevoli strutture rurali, composte da masse murarie, spalti di raccolta e cisterne sotterranee, che assumono aspetti sempre più massicci come i nuraghi, massima evoluzione delle possibilità di aggregazione sul territorio della forma rotonda e dell’uso del megalitismo per la condensazione della umidità.
Nelle zone aride si sviluppano una serie di tecniche che dai semplici allineamenti di pietra, tumuli a mezza luna, muri a secco, evolvono in complessi dispositivi di doppie cortine murarie provviste di cisterne di raccolta. Ne permangono innumerevoli tracce archeologiche nel deserto del Negev, lungo il wadi Araba e nella valle del Giordano, tutte aree ora completamente deserte, ma che, grazie a questi metodi di captazione dell’umidità e di protezione dei suoli, erano fertili e prosperose. Prospezioni archeologiche (Evenari 1971) hanno rilevato nel Negev antichissimi resti di olivi e vigne, colture un tempo irrigate grazie a un sistema di muretti a secco, collettori di rugiada chiamati in arabo teleylat al ‘anab, “monticoli per la vigna”. Le piante erano installate all’interno di piccoli recinti di pietre disposte con larghi interstizi per captare il vento carico di umidità. La vigna e l’olivo potevano così crescere in mancanza assoluta di sorgenti e falde. I muri, i cumuli di pietra, i tumuli, i trulli e gli ammassi di roccia calcarea chiamati specchie, i talayotes, i nuraghi, i teleylat el ‘anab agiscono quindi da strutture di condensazione e conservazione dell’acqua. Gli ammassi di pietre assolvono la loro funzione sia di giorno che di notte. Sotto il sole cocente, il vento con tracce di umidità si infiltra tra gli interstizi del cumulo di pietre le quali hanno una temperatura inferiore nella parte interna perché non esposta al sole o è raffrescata dalla camera ipogea sottostante quando questa è presente.
L’abbassamento di temperatura provoca la condensazione di gocce che sono assorbite dal terreno, nel caso dei muri, o precipitano nella cavità. La stessa acqua accumulata fornisce ulteriore umidità e frescura amplificando l’efficacia della struttura di condensazione. Durante la notte il processo si inverte e la condensazione avviene esternamente ma produce risultati analoghi. La superficie fredda delle pietre condensa l’umidità e la brina scivola negli interstizi umidificando il suolo o andandosi a raccogliere nella camera della cisterna. Numerose strutture di questo tipo sono usualmente considerate monumenti funerari, ma sono invece rapportabili a usi idrici a scopo funzionale o rituale. Sulla Murgia Timone a Matera, lungo il fossato degli arcaici recinti neolitici, furono inserite nell’Età del Bronzo strutture formate da un doppio cerchio di pietre attraversato da un corridoio recante a un ambiente centrale ipogeo.
Dispositivi simili si riscontrano nel neolitico sahariano, nel deserto arabico e nello Yemen, regione quest’ultima considerata area di sviluppo di civiltà delle acque nascoste basate sulla idrogenesi aerea (Pirenne 1977), e sono successivamente diffusi in tutto il Mediterraneo. Trovano nella città di Petra la più imponente realizzazione urbana e sono per questo designati con il nome di agricoltura edomita e nabatea dai due antichi popoli che avevano come centro questa città (Zaydine 1991). I contatti con il Sud dell’Arabia tramite la via dell’incenso spiegano le similarità con le tecniche idriche sabee che hanno nella cosiddetta diga di Marib, in realtà un sistema di ripartitori e di chiuse d’acqua (Dentzer 1989), la più imponente manifestazione dell’evoluzione delle pratiche di formazione di suolo per inondazione in strutture complesse. Nei luoghi più elevati dove le precipitazioni sono presenti, anche se in modo sporadico, a questi dispositivi sono associate le superfici di raccolta delle acque di pioggia che evolvono in architetture a terrazza o a corte organizzate a questo scopo.
Sono proprio i templi e i monumenti cultuali, come successivamente le moschee, a svolgere la funzione di captazione dell’acqua, tanto che nel corso del tempo diventa sempre più difficile risalire all’identificazione funzionale delle opere. Come per i tumuli, i kurgan, la tholos si attua un processo di utilizzazione da parte delle costruzioni sacre delle forme delle strutture idriche. Questo sia per l’uso concreto dell’acqua nelle cerimonie religiose e funerarie, sia perché la sapienza idrica era spesso veicolata dalle personalità sacre o eroiche, sia per il solo scopo simbolico di richiamare nel mausoleo funebre le architetture delle strutture produttrici di acqua, fonte di vita. Nelle società a piccola scala i clan familiari, attraverso i mausolei e i riti collegati, celebrano gli antenati rafforzando l’identità di gruppo e marcando i punti strategici di percorrenza. In tal modo si afferma in questo periodo il concetto di territorio costituito da una rete di centri che, agendo in modo integrato, sfruttano differenti ecosistemi. La pratica è gia avanzata a metà del secondo millennio in Italia centrale dove, tramite la transumanza stagionale, si realizza la connessione tra villaggi di altura, percorsi marcati dai dispositivi d’acqua e complessi cultuali, stazioni di sosta e pascoli (Barker 1981).
Nelle civiltà idrauliche i sovrani interpretano in modo monumentale le tecniche delle culture locali e se ne appropriano. Significativa in tale senso è l’operazione fatta dal Faraone Tutmosi I che alla metà del II millennio scavò sulla riva sinistra di Tebe “gli ipogei nello wadi” cioè i primi monumenti dell’area nota in seguito a tutto il mondo come la Valle dei Re. La localizzazione delle strutture sotterranee proprio secondo le ramificazioni del corso del fiume fossile del deserto fanno pensare al riuso di opere preesistenti funzionali alla intercettazione della rete idrografica o all’uso monumentale di esperienza accumulata in queste attività. La condizione generale non impedisce l’esistenza anche all’interno di queste aree, o in situazioni marginali e geograficamente protette, di realtà differenti basate su coltivazioni a piccola scala gestite a livello familiare in comunità capaci di mantenere la loro indipendenza e tramandare saperi locali. Si perpetuano così conoscenze adattate in società che, per contrapposizione a quelle idrauliche, definiamo comunità idroagricole, idrogenetiche o autopoietiche.
Queste forme sociali sopravvivono grazie all’isolamento e all’asprezza geografica in luoghi volutamente scelti per queste caratteristiche e trasformati da ingegnose comunità in centri di particolare rilievo economico tramite il commercio o la coltivazione di una specie rara, o per effetto di forti motivazioni culturali legate alla fede religiosa e alla coesione sociale. La divaricazione tra le comunità a piccola scala e la società idraulica è evidenziata, sia materialmente che simbolicamente, dalla costruzione del Grande Canale Cinese iniziata alla metà del primo millennio a. C. L’opera è collocata proprio al terminale della via della seta, da centinaia di anni veicolo di diffusione e di scambio delle conoscenze tradizionali, per unire il corso del Fiume Giallo del deserto con quello del Fiume Azzurro del potere imperiale cinese. Sviluppato approssimativamente lungo una direzione nord-sud per circa 1.700 chilometri è il sistema di canali più esteso del mondo e per l’imponenza geografica e l’impatto sulla società può essere considerato un vero e proprio Nilo artificiale. La sua realizzazione struttura lo spazio cinese e ne accompagna le trasformazioni, territoriali, sociali e amministrative.
Sempre nel corso del primo millennio si verifica lo sviluppo della irrigazione a grande scala nei bacini interfluviali e la produzione di acqua nei deserti mediante gallerie drenanti, qanat, foggara, falaj. Queste ultime determineranno la diffusione delle oasi, sintesi della capacità delle conoscenze tradizionali di creare autopoiesi e intensificazione delle risorse in ecosistemi in equilibrio.
Verso un futuro sostenibile
L’oasi costituisce un sistema autocatalitico in cui un iniziale apporto di condensazione e di umidità viene amplificato dalla installazione delle palme che producono ombra e attirano organismi formando humus. Il palmeto determina un microclima umido alimentato attraverso tecniche di captazioni idriche come le gallerie drenanti delle foggara, le precipitazione occulte, la condensazione, il controllo dei flussi sotterranei e delle piene. L’abitato realizzato in terra cruda non comporta lo spreco di legname per la cottura dei mattoni, è raffrescato dal percorso sotterraneo dell’acqua e fornisce rifiuti per la fertilizzazione dei campi. Il sistema gestisce la risorsa acqua secondo un ciclo di utilizzo che non solo è compatibile con la rinnovabilità delle quantità disponibili, ma le aumenta. Nel deserto la domesticazione della palma da dattero (Phoenix dactilifera) è il presupposto dell’impianto delle oasi. Dai principali poli neolitici i palmeti si estendono attraverso il Sahara e gli altri deserti con lo sviluppo di conoscenze capaci di determinare l’effetto oasi: amplificazione di dinamiche positive per la produzione idrica e la gestione delle risorse (Laureano 1988).
Le tecniche si diffondono anche nel Mediterraneo settentrionale e ai margini meridionali del deserto in luoghi dove la palma da dattero non giunge a maturazione. In queste situazioni altre piante sono utilizzate in associazione con l’orticoltura per garantire il mantenimento dei suoli e l’ombra oltre al frutto specifico come l’ulivo nel Mediterraneo e la Papaia nel Sahel e l’Arabia del Sud. Si determina un modello allargato di oasi come capacità di creare situazioni vivibili in ambienti difficili e ostili grazie all’impiego delle conoscenze idroagricole: ecosistemi urbani realizzati in stretta associazione uomo-natura innescano, in condizioni di risorse rare, cicli vitali, dinamiche autopoietiche, capaci di autoriproduzione e di sostenibilità nel tempo.
L’ecosistema urbano è la stratificazione del sapere locale accumulato concretizzato in una dimensione che non è più quella del villaggio ma propria alla città. Aree irrigue sono create utilizzando situazioni geomorfologiche favorevoli in condizioni geografiche precise. Una capitale domina ciascuna unità di paesaggio: bacini isolati in mezzo al deserto; grandi pianure tra picchi montani; nastri di oasi lungo reti idrografiche; crocevia di strade lontane, internazionali o intercontinentali. Ma anche piccoli sistemi di habitat, la cui trama urbana è spiegabile a partire dalla matrice idroagricola e dalle necessità di captazione dell’acqua, divengono centri storici di rilevanza regionale e con caratteristiche urbane. Costituiscono realtà variegate riscontrabili in situazioni disparate: città-oasi di terra cruda, come quelle sahariane o dello Yemen, utilizzano i rifiuti organici degli abitanti per fertilizzare le sterili sabbie e renderle adatte alla realizzazione di ardite architetture; oasi di pietra, scavate fino dalla preistoria nel Sud d’Italia e in Medioriente sono capaci di condensare nelle grotte e sulle costruzioni a secco l’acqua necessaria; oasi religiose, scolpite nelle valli d’erosione della Cappadocia, della Palestina, della Tebaide e dell’Etiopia o installate lungo la via della seta fino in Cina, si organizzano come eremi e giardini murati irrigati tramite gallerie drenanti, cisterne e canalizzazioni; oasi di mare, diffuse nelle aride isole del Mediterraneo e del Mar Rosso, vengono alimentate da sorgenti aeree; e anche oasi di foresta pluviale poiché le stesse architetture Maya, pure sviluppatesi in un clima umido, possono essere interpretate attraverso la funzionalità di raccolta dell’acqua indispensabile in un ambiente carsico privo di corsi superficiali. Gli ecosistemi urbani costituiscono la continuità delle conoscenze tradizionali che a partire dalle prime grotte, allineamenti di pietra e rigagnoli artificiali si sviluppano e diversificano nelle diverse condizioni ambientali fino alla realizzazione di sistemi idrici sempre più complessi. Come i centri storici tradizionali del Sud d’Italia e del Maghreb, costituiscono modelli insediativi densi e concentrati funzionanti in stretto rapporto con il paesaggio agrario, rispetto al quale fungono da granai, empori commerciali e centri di organizzazione dei servizi.
La crisi dell’agricoltura tradizionale è proceduta di pari passo all’esodo da questi centri che situati in generale nelle aree impervie e montane con le loro architetture tradizionali, i sistemi di raccolta dell’acqua e le tecniche di protezione dei suoli costituivano presidi territoriali capaci di contrastare il degrado dei suoli. Si tratta di un modello economico sociale alternativo a quello delle civiltà idrauliche. Queste ultime erano basate sull’espansione crescente supportata dalla forte crescita demografica innescata dal potenziale agricolo e mantenuta da una politica di conquista imperiale, da redditi provenienti dallo sfruttamento di ingenti quantità di lavoratori e dal dispendio delle risorse in monumenti o nelle guerre. Le conseguenze del modello idraulico corrispondono a quelle della logica di sviluppo illimitato propria alle società affluenti contemporanee: l’ipertrofia e la distruzione del territorio, la centralizzazione burocratica e la distruzione crescente dell’ambiente fino alla catastrofe ecologica.
Tuttavia, ancora oggi il sapere locale delle società a piccola scala continua a tramandarsi in aree apparentemente arretrate o negli interstizi della società avanzata e nei luoghi conservati per il loro valore culturale. E’ errato infatti considerare le conoscenze tradizionali marginali rispetto ai grandi processi economici e tecnologici in corso. Anche dal punto di vista quantitativo il loro impiego sostiene ancora la massima parte dell’umanità che è distribuita nei Paesi meno industrializzati. Paradossalmente nei luoghi dove le tecniche tradizionali sono ancora utilizzate in modo massiccio esse sono considerate dal pensiero modernista come fenomeno di arretratezza, mentre nei Paesi sviluppati divengono elementi di immagine e di incremento di valore.
Infatti, proprio nei Paesi più moderni si riscontrano situazioni di persistenza delle tecnologie tradizionali e di consolidamento e di stabilizzazione del loro ruolo nella società e nell’economia. I valori della tradizione, le pratiche di lavorazione e le capacità artigianali, sono la base su cui si fonda l’altissimo valore aggiunto di produzioni di enorme importanza economica per molti Paesi altamente sviluppati. Nelle regioni del Vallese, in Svizzera, della valle della Loira, in Francia, della Toscana in Italia il mantenimento di tecniche tradizionali in agricoltura ha permesso la stabilizzazione di paesaggi di grandissima qualità, veicolo della vendita a prezzi altamente remunerativi dei prodotti alimentari. Gli insediamenti storici, i paesaggi tradizionali, le conoscenze locali offrono soluzioni che vanno salvaguardate e possono essere riproposte adattate e rinnovate con il concorso della tecnologia moderna. Non si tratta di riapplicare indifferentemente le singole tecniche, ma di cogliere la logica del modello tradizionale che ha permesso alle società di compiere balzi positivi di status e di effettuare realizzazioni tecniche, artistiche e architettoniche fondamentali nella storia delle culture (Laureano 2001).
La conoscenza tradizionale è sempre stata un sistema dinamico capace di incorporare la innovazione sottoposta al vaglio del lungo periodo e della sostenibilità locale e ambientale. Essa va quindi riproposta come conoscenza innovativa appropriata e avanzata per la elaborazione di un nuovo paradigma tecnologico basato sui valori progressivi della tradizione: la capacità di valorizzare le risorse interne e di gestirle localmente; la polivalenza e la compenetrazione tra valori tecnici, etici ed estetici; la produzione non finalizzata a se stessa ma orientata al benessere della collettività e fondata sul principio che ogni attività debba alimentarne un’altra senza scarti e rifiuti; l’uso delle energie basato su cicli che si rinnovano continuamente.
Per saperne di più: Pietro Laureano, Atlante d’Acqua, conoscenze tradizionali per la lotta alla desertificazione, Bollati Boringhieri, Torino 2001.
NOTE
(1) Il loess è un deposito superficiale di minerali in granuli di colore giallastro. Wadi (o uadi) è il letto di un fiume solitamente asciutto, tipico delle zone desertiche nordafricane e della penisola arabica (N.d.R.).
(2) Il permafrost (o permagelo) è un suolo permanentemente gelato, soggetto al disgelo estivo solo nella porzione superficiale. E’ tipico delle zone polari, subpolari e periglaciali.
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