La salute passa per l’alimentazione. E non soltanto la nostra, ma anche quella del pianeta. Agricoltura, pesca e allevamenti intensivi rappresentano attualmente una fonte non trascurabile di inquinamento, mettono a rischio la biodiversità, e contribuiscono al consumo di risorse essenziali come l’acqua e il suolo. Ma in futuro potrebbero trasformarsi in una risorsa fondamentale, capace non solo di assicurare una migliore salute a tutti noi, ma anche di contrastare i cambiamenti climatici, e diminuire l’impatto ambientale della nostra specie. Tutto sta a cambiare le nostre abitudini alimentari e i processi agricoli e di allevamento con cui le sosteniamo. È questo il risultato a cui è giunta una commissione di oltre 30 esperti internazionali chiamati dalla rivista Lancet a ripensare alla radice il modo in cui produciamo, e consumiamo, il cibo, per ottenere una dieta che sia al contempo più salutare, e anche più sostenibile. Insomma: una dieta per la salute del pianeta (Planetary Health Diet), come la definisce il documento appena pubblicato dai 30 esperti su Lancet.
La cara vecchia dieta mediterranea
Nel report si trovano indicazioni pratiche per rendere salutare la dieta del pianeta. La prima cosa da fare ovviamente, specie nei paesi industrializzati, è diminuire drasticamente il consumo di alimenti potenzialmente nocivi. Parliamo di zuccheri, farine raffinate e prodotti di origine animale. Che da cibi delle grandi occasioni si sono trasformati oramai in elementi della nostra alimentazione quotidiana. Stando alle raccomandazioni degli esperti, il loro consumo deve diminuire almeno del 50% entro il 2050, per raggiungere gli obbiettivi della planetary health diet. Al contempo, deve aumentare il ricorso a frutta, verdura, farine integrali, legumi, semi oleosi e pesce.
Si tratta di raccomandazioni realistiche, che per noi italiani vorrebbero dire sostanzialmente aderire alla cara, vecchia, dieta mediterranea. “A guardar bene le tabelle che abbiamo compilato non si tratta di una dieta particolarmente difficile da seguire”, spiega a Wired Francesco Branca, direttore del dipartimento di nutrizione dell’Oms e membro della Eat-Lancet Commission on Food, Planet, Health. “Non parliamo ad esempio di eliminare i prodotti animali, ma di ridurli. In una settimana si possono consumare 100 grammi di carne rossa e 200 di pollame, mentre per latte e derivati si può arrivare anche a 250 grammi al giorno”. Il grosso dell’importo calorico dovrà essere affidato a legumi, riso, grano e mais. E ovviamente frutta e verdura, di cui se ne dovrebbe consumare mezzo chilo al giorno, condendo i piatti (quando serve) con grassi salutari come quelli contenuti nell’olio extravergine di oliva.
La salute vien mangiando
Che impatto avrebbe una simile rivoluzione alimentare? È presto detto: le stime degli esperti parlano di oltre 11 milioni di morti in meno ogni anno in caso di un’ampia adozione di queste linee guida. L’alimentazione d’altronde rappresenta un ingrediente fondamentale per la prevenzione di tumori, malattie croniche, disturbi cardiovascolari, obesità e moltissime altre gravi patologie. E questo limitandoci ai problemi che affliggono i paesi industrializzati, perché è importante ricordare che quasi un miliardo di persone nel mondo soffrono a causa di un’alimentazione insufficiente, per un totale di oltre 3 miliardi di persone mal nutrite, nel senso di male alimentate (la cui salute soffre a causa dell’alimentazione) nel globo. Con numeri del genere, garantire e promuovere un’alimentazione salutare a livello globale è evidentemente un obbiettivo strategico, che non deve però farci dimenticare un altro problema: produrre il cibo inquina. E in futuro lo farà sempre di più, visto che le previsioni i dicono che entro il 2030 sulla Terra vivranno oltre 10 miliardi di esseri umani. Sarà possibile produrre cibo per tutti, e farlo in modo sostenibile per il pianeta?
L’impatto del comparto alimentare
La sfida che si sono posti i 30 esperti che hanno partecipato alla Eat-Lancet Commission on Food, Planet, Health è quella di produrre cibo senza superare i limiti del pianeta, o planetary boundary, ossia lo spazio di manovra entro cui la nostra produzione alimentare non mette a rischio la stabilità e la resilienza dell’ecosistema terrestre. In pratica, il documento identifica sei aree critiche in cui agricoltura e allevamenti intensivi rappresentano un pericolo: cambiamenti climatici, consumo del suolo e delle risorse idriche, perdita di biodiversità, compromissione del ciclo del fosforo e dell’azoto. “Gli accordi internazionali che abbiamo stretto per proteggere il futuro del pianeta fino ad ora si sono concentrati su ambiti come quello della produzione energetica, la dipendenza dai combustibili fossili, i trasporti”, spiega Branca. “Il ruolo svolto dal sistema alimentare, pur non indifferente, è stato invece sostanzialmente ignorato”. La buona notizia – sottolinea l’esperto – è che con le giuste contromisure, la produzione e il consumo alimentare possono smettere di fare parte del problema, e diventare una parte importante della soluzione.
Salute e ambiente vanno a braccetto
La chiave è comprendere che la dieta più salutare per l’essere umano è anche la più sostenibile per il pianeta, se a un cambiamento nelle abitudini alimentari si associa anche una rivoluzione nelle tecniche con cui vengono prodotti gli alimenti. Tutto il sistema, insomma, deve cambiare alla radice, per promuovere l’adozione di una dieta più sana e di una produzione più mirata e sostenibile. E non ultimo, una sostanziale riduzione degli sprechi: un problema non indifferente, se si pensa che circa il 50% del cibo prodotto nel pianeta attualmente viene sprecato, a causa di cattive abitudini, sovrapproduzione, e problemi infrastrutturali (specie nei paesi in via di sviluppo) che rovinano gli alimenti prima che raggiungano le tavole dei consumatori.
“Il cambiamento deve avvenire a tutti i livelli – spiega Branca – per innescare un circolo virtuoso tra abitudini alimentari dei singoli cittadini, politiche a sostegno della produzione sostenibile e della lotta agli sprechi a livello nazionale, e politiche internazionali che incentivino la transizione verso un nuovo sistema alimentare”.
Sul piano produttivo, il report disegna una roadmap molto precisa che dovrebbe guidare il comparto alimentare da qui al 2050. Partendo dalla de-carbonizzazione della produzione agricola (l’abbandono di tecniche e metodi produttivi basati sui combustibili fossili). Passando un dimezzamento degli sprechi alimentari, la necessità di non aumentare in alcun modo il consumo di acqua e di suolo e di azzerare la perdita di biodiversità. In questo modo sarà possibile garantire cibo sostenibile per 10 miliardi di persone, e migliorare al contempo la salute globale.
Se la strada da seguire è chiara, si tratterà evidentemente di un percorso accidentato che richiederà profondi cambiamenti non solamente nelle nostre abitudini quotidiane, ma anche nei sistemi produttivi e commerciali che regolano il comparto alimentare. “Quello che speriamo di ottenere con questo report è di stimolare una discussione a tutti i livelli – sottolinea Branca – il tema è importante, e la speranza è che si arrivi prima o poi a una qualche forma di accordo sull’alimentazione, un po’ come è avvenuto con l’accordo di Parigi sul clima. È evidente che serviranno incentivi economici per spingere i produttori a modificare le loro strategie agricole, e per garantire a tutta la popolazione l’accesso a materie prime di qualità che oggi spesso costano ben più delle alternative poco salutari. Ma vista la posta in gioco, è importante che si inizi a parlarne il prima possibile”.
Via: Wired.it