Lavoro e famiglia: difficile conciliarli per chi fa ricerca

“Il conflitto tra lavoro e famiglia non dipende dal genere, almeno nella comunità scientifica. Ma rimane un’impostazione arcaica del mondo accademico, ancora basato su un modello di società che non esiste più, e che dunque non si addice alla nuova forza lavoro”. Le parole sono di Janet Bandows Koster, direttore esecutivo e amministratore delegato della Association for Women in Science (Awis). Non sono solo le donne, dunque, che non riescono a combinare vita personale e lavorativa.

L’affermazione è suffragata dai dati di un’inchiesta condotta dall’Awis e presentata a New York nel convegno “Global Experts on Work-Life Family Issues”, che si è tenuto in una settimana importante per il genere femminile, quella della Giornata Internazionale della Donna e della 56esima sessione della Commissione sullo Stato delle Donne dell’Onu.

A dirla tutta, osservando i dati che emergono dallo studio, le differenze di genere ci sono (vedi Galileo, Come colmare il gap di genere nella ricerca), ma ecco i problemi più complessivi dell’intero sistema accademico: è molto difficile coniugare l’impegno della ricerca con la vita personale, le opportunità di carriera sono troppo poche e i salari per chi vuole mettere su famiglia sono troppo bassi.

L’indagine – partita a dicembre 2011 e conclusa a gennaio 2012 – ha coinvolto 4.225 scienziati e ricercatori di diverse discipline, attivi in tutto il mondo. Prevalentemente si trattava di uomini (solo il 30% degli intervistati era di sesso femminile) provenienti dall’Europa, dal Nord America e dai paesi dell’Asia Pacifica, ma in più piccola parte sono stati coinvolti anche scienziati originari di America Latina, Medio Oriente e Africa. Di tutti i partecipanti l’80% risultava sposato o convivente, il 64% impiegato in università e l’83% lavorava almeno 40 ore a settimana.

Per molti di questi era proprio bilanciare il rapporto casa/lavoro a risultare complicato, spesso fonte di preoccupazioni o di problemi. Solo un terzo degli intervistati affermava infatti di lavorare per delle istituzioni ‘family friendly’, e il 36% di quelli con i figli dichiarava di aver subìto rallentamenti negli scatti di carriera proprio a causa della prole.

Un conflitto, quello tra i due ambiti, dunque fortemente percepito. Tanto è vero che più della metà dei partecipanti all’inchiesta (il 54%) ha anche sostenuto che un impiego nel mondo della scienza significa mettere da parte la vita familiare, o comunque si pone in contrapposizione con essa almeno due o tre volte a settimana, a prescindere dal sesso.

Eccoci, invece, alle differenze di genere. Solo il 52% delle donne ha riportato di essere soddisfatto di come la vita accademica si sposi con quella personale, mentre lo stesso dato per gli uomini sale al 61%. Allo stesso modo, se in media circa un terzo dei ricercatori affermava di aver avuto ripercussioni negative sulla famiglia a causa del lavoro, questa percentuale risultava leggermente più alta nelle scienziate (37% rispetto a 30%). Circa il 40% delle ricercatrici, inoltre, ha dovuto posticipare una gravidanza per colpa della carriera accademica – spesso dovendo aspettare di avere un posto fisso o uno stipendio più alto per poter mantenere la famiglia – mentre la percentuale scendeva al 27% per gli uomini.

Tra coloro che hanno dichiarato di voler cambiare o lasciare il lavoro entro un anno, inoltre, le donne risultavano in percentuale doppia rispetto agli uomini (12% contro 6% degli intervistati). Circa un lavoratore su dieci conta dunque di lasciare a breve il mondo accademico, e il 9% di questi dichiara che il motivo risiede proprio nel non essere riuscito a coniugare vita personale e carriera. “Bisogna cominciare a chiedersi perché gli scienziati che vorrebbero un’esistenza soddisfacente sia sul lavoro che in famiglia siano in un modo o nell’altro esclusi dal mondo accademico”, ha detto Bandows Koster, che nella vita è ingegnere. “Non si può ridurre il problema a quello di voler fare figli o meno mentre si lavora. E possibilmente si deve anche evitare di puntare il dito contro le donne, mettendo alla questione l’etichetta di ‘problema di genere’. Il problema è più generale e come tale va discusso. Da tutta la comunità scientifica”.

Riferimento: Awis, studio

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