Le guerre nella scienza

Il mondo accademico è sempre un salotto ovattato, dove pacati e saggi intellettuali discettano amabilmente sui grandi temi culturali? Favole. A volte si trasforma in un teatro di dispute feroci e di violenti scontri verbali. Tanto è vero che il 25 e 26 maggio scorsi il dipartimento di Fisica dell’Università dell’Aquila ha ospitato un workshop dal titolo significativo: “Science Wars”, le guerre nella scienza. Ospiti d’onore: Alan Sokal, fisico della New York University nonché autore di una clamorosa beffa ai danni della rivista americana di studi culturali – che pubblicò con entusiasmo un suo saggio “generosamente condito di assurdità” – e Jean Bricmont, fisico dell’Université catholique de Louvain, in Belgio. Il workshop ha preso spunto dall’uscita in italiano del libro “Imposture intellettuali” scritto dai due fisici, che ha scatenato vigorose reazioni e polemiche nel mondo intellettuale americano e francese. Le tesi principali del libro sono due: una critica agli intellettuali che, utilizzando impropriamente una terminologia scientifica, intimidiscono i lettori per rafforzare le proprie tesi. La seconda tesi è un attacco al postmodernismo, che gli autori ritengono responsabile delle attuali derive irrazionali e mistiche. Galileo ha raccolto i pareri dei due scienziati.

“Guerra nella scienza”. E’ veramente questa la situazione attuale?

Sokal: “Ci tengo a precisare che non sottoscrivo assolutamente il termine guerra: è un dibattito interno al mondo culturale, a volte aspro, anche scorretto, ma che rispetta le regole civili e democratiche. Il confronto è tra diverse interpretazioni del concetto di cultura, di verità e di conoscenza. Nel nostro libro abbiamo cercato di demolire due aspetti pericolosi di alcune posizioni intellettuali. Specialmente di quelle oggi accreditate presso numerosi circoli culturali e, diffusamente, nell’ambito delle scienze sociali. Il primo punto è la critica all’abuso di termini e concetti scientifici in contesti extrascientifici (o meglio, pseudoscientifici)”.
Bricmont: “Il secondo punto consiste in un attacco al dilagante relativismo che ha come oggetto la conoscenza e l’epistemologia”.

Qual è la critica che rivolgete all’abuso di linguaggio scientifico?

S: “Ci sono intellettuali molto di moda che utilizzano impropriamente termini e concetti scientifici: li sparano in faccia al lettore indifeso senza spiegarne né il significato né, soprattutto, la relazione che essi hanno con le loro tesi. Il punto è che molti fruitori, trovando il testo difficile e complesso, ne restano intimiditi e tendono ad ammirarlo. Ma gli autori in questione sono di difficile comprensione solo perché affermano concetti senza senso. Questo è quanto siamo convinti di aver dimostrato nel nostro libro, analizzando i testi di autori come Jacques Lacan, Bruno Latour e molti altri”.

La vostra è quindi una difesa dei concetti scientifici, del loro corretto uso.

S: “Non solo, è anche e soprattutto una critica a quello che noi chiamiamo principio di autorità. Gli autori trattati cercano di impressionare ed intimidire il lettore”.
B: “Quelle che abbiamo evidenziato non sono sviste in un progetto onesto. La natura degli errori è tale da farci pensare a un’incompetenza grossolana oppure a una profonda disonestà intellettuale. Chiaramente propendiamo per questa seconda interpretazione”.

La critica al relativismo, invece, su quali argomenti si basa?

S: “Attacchiamo, analiticamente, le cosiddette posizioni postmoderniste. Il relativismo porta a concludere che ogni verità è una mera costruzione sociale. Il concetto di verità, in quest’ottica, diventa semplicemente ciò che viene accettato e condiviso all’interno di una comunità. E si vorrebbe che valesse anche per le verità scientifiche. Mentre la scienza ha un processo ben codificato di validazione della verità: il metodo scientifico”.
B: “Io mi spingo anche oltre: ritengo infatti che l’unica conoscenza possibile sia quella che proviene da un processo scientifico. Contesto vigorosamente le posizioni relativiste che portano, per esempio, ad affermare che la cosmologia degli indiani d’America abbia lo stesso valore epistemologico della cosmologia moderna”.

Esiste una relazione tra i due oggetti della vostra critica?

S: “Si. Ci sono due relazioni. La prima è di carattere sociologico: negli ambienti culturali postmodernisti, gli autori che si avvalgono del principio di autorità vanno molto di moda. In secondo luogo, una possibile difesa degli autori sotto accusa per abuso di concetti scientifici potrebbe essere: “la mia analisi è socialmente accettata, dunque ha valore conoscitivo”. L’utilizzo dei concetti scientifici non sarebbe così univoco, né assoluto”.

Tra le numerose critiche che avete ricevuto, quali sono state le più convincenti

S: “Onestamente nessuna. D’altronde le tesi del nostro libro sono praticamente inattaccabili. Le critiche sono tutte di livello molto basso, spesso a livello personale”.
B: “Parlerei piuttosto di polemiche. La più ridicola è quella che ci accusa di francofobia, motivata dal fatto che siamo un americano e un belga che attaccano autori perlopiù francesi”

Quali sono le motivazioni personali che vi sostengono nell’affrontare tutte queste polemiche e le antipatie dei colleghi?

S: “Per me c’è innanzitutto una forte motivazione politica: provo disgusto nel vedere che, almeno negli Stati Uniti, è la sinistra che ha fatto proprie queste tesi postmoderniste. Vivo questo fatto come un tradimento: io sono un uomo di sinistra e, storicamente, la sinistra si è identificata con la scienza. Contro l’oscurantismo, contro le mistificazioni della realtà (naturale o sociale che sia). Perdere questo strumento razionale di analisi verso ciò che ci circonda, è estremamente pericoloso.”
B: “Io ho invece una motivazione di carattere storico. Fino alla prima metà di questo secolo, il positivismo permeava il pensiero occidentale. Con gli attacchi di Quine, Kuhn, Feyerabend e molti altri, si è aperta la strada alla deriva new age dei nostri giorni. Assistiamo al trionfo dell’irrazionale, del mistico, della mistificazione. L’eredità che ha il nostro pensiero è invece di tutt’altro carattere e dobbiamo riappropriarcene. Anche a costo di sposare posizioni fortemente scientiste.”

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