Geoffrey Rose, Le strategie della medicina preventiva Il pensiero scientifico, Roma 1996, pp.128,lire 28.000)
recensione di Stefano Cagliano
Nel libro Consigli a un giovane scienziato il premio nobel Peter Medawar ricorda che “pochi preferiscono sul serio un sistema fognario cattivo a uno efficiente (…), ma vi fu un tempo in cui il Times di Londra poté essere annoverato fra questi. Quando Edwin Chadwick propose a tutela della salute dei londinesi la costruzione di un sistema sanitario adeguato, il quotidiano lo criticò aspramente e sostenne (…) che i londinesi avrebbero preferito ‘rischiare il colera o malattie simili piuttosto che essere costretti a restare sani dal signor Chadwick e colleghi’ ”.
Oggi quel cronista non troverebbe uno straccio di avvocato pronto a difenderlo. Eppure, sottolinea subito dopo Medawar, “lo spirito con cui il Times aveva attaccato la proposta di Chadwick è tutt’altro che morto. Ogni volta che il consiglio municipale di qualche città americana si pronuncia contro l’uso dei farmaci al fluoro, o quando qualcuno il Inghilterra li dichiara inefficaci o addirittura dannosi, in quell’angolo del monte Olimpo governato dal Dio delle Carie si fa festa”.
Sulla prevenzione delle malattie sembra governare una maledizione. Ogni volta che qualcuno fa una proposta al riguardo, la reazione è l’indifferenza , o si dice che mancano le prove o, peggio, si grida all’attentato alla libertà personale. La dichiarazione dell’Academy of General Dentistry statunitense, secondo cui i baci – con l’abbinato aumento di salivazione – proteggono i denti, costituisce uno dei pochissimi casi in cui una misura preventiva incontrerebbe l’entusiasmo generale.
Un problema di fondo nella tutela della salute è che la medicina si è occupata sempre o solo dei bisogni dei malati. E’ un po’ il suo peccato originale perché, nota Geoffrey Rose in La strategia della medicina preventiva, “questo ha modellato la sua etica – vista essenzialmente come responsabilità verso i malati – l’indirizzo delle ricerche – perché le persone si ammalano – la programmazione dei servizi sanitari.” “Ma ora – aggiunge preoccupato – questo modo di pensare si è esteso all’identificazione dei fattori a rischio e alla prevenzione delle malattie: i generici si prendono cura dei malati d’ipertensione, i medici del lavoro si preoccupano che nessuno sia esposto a un eccesso di sostanze tossiche, e quando si parla di alcol ci si riferisce al ‘problema bevitori’. Scopo di queste iniziative è aiutare una minoranza di persone vulnerabili, un’operazione che anche quando riesce non può risolvere i problemi”.
La mortalità e la longevità di una nazione riflettono in larga misura l’incidenza delle malattie e solo marginalmente gli investimenti nelle sue strutture sanitarie. In altri termini, se nei paesi ricchi si muore più tardi che in quelli poveri è soprattutto perché ci si ammala meno, e solo in part perché medici e ospedali offrono una risposta alle malattie.
La partita della prevenzione non si gioca tra i camici bianchi, ma altrove. Forse anche per questo la medicina preventiva non ha riscosso mai troppe simpatie tra i medici che agiscono come se le loro responsabilità fossero limitate alle persone malate o a quelle quasi malate. E del resto, se un traumatologo o un rianimatore chiedesse non camere di rianimazione ma un controllo severo dei limiti di velocità o auto più sicure, molti direbbero che non è affar loro, mentre gli industriali inizierebbero a disquisire sul calo delle vendite e i problemi occupazionali.
Eppure, sottolinea ancora Geoffrey Rose, “le decisioni che più condizionano la salute di una nazione non sono prese nelle stanze del ministero della sanità, ma in quelle dei dicasteri dell’ambiente, dell’istruzione, del lavoro e (specialmente) del ministero del tesoro”. Ogni anno in Europa gli incidenti stradali sono responsabili di 50.000 morti e di un milione e mezzo circa di casi di invalidità. Per quanto riguarda i morti è come se ogni 70 ore cadesse o esplodesse un jumbo.
Le pagine di Rose sono un’occasione preziosa, quasi unica, per saperne di più su l’Araba Fenice che è la medicina preventiva. Le due caratteristiche di fondo, quelle che rendono questa medicina così poco popolare tra i medici, sono che il suo “paziente” è la popolazione, e che essa misura la salute con la statistica e non con la clinica.
La materia prima della prevenzione delle malattie non sono i singoli ma le comunità. E’ su queste che si esercita l’azione di protezione della salute. E questo da un angolo visuale diverso da quello della medicina propriamente detta. Se questa ha per nemici cirrosi, infarto, cancro al polmone, bronchite cronica, epatite virale, ecc., i bersagli della prevenzione sono alcolici, fumo, droga, sporcizia e cosi via. Questa scelta di bersagli impone alla prevenzione una logica particolare, che arriva a veri e propri paradossi. Anche quando una malattia colpisce poche persone, per prevenirla occorre che le misure necessarie siano estese a tutta la popolazione potenzialmente interessata. Quando quarant’anni fa fu introdotta la vaccinazione antidifterica, occorreva vaccinare 600 bambini per poter dire di averne salvato uno. E così, quando nel 1958 si pensò alla vaccinazione antipolio in Italia, la malattia colpiva “solo” alcune migliaia di bambini. Ma per prevenire quei casi ne sono stai vaccinati milioni.
Usare le cinture o migliorare la sicurezza delle auto, diminuire il consumo di sale o ridurre quello di calorie o di alcolici sono misure che abbassano di poco la probabilità di malattia del singolo cittadino. ma per la comunità è diverso. Ridurre del 10% il colesterolo in una comunità abbasserebbe del 20-30% le malattie cardiache. Diminuire di un terzo il sale consumato farebbe calare del 20% i casi di emorragia cerebrale. Il senso di tutto questo è che una misura molto vantaggiosa per la comunità è solo di scarso aiuto per la persona. Qualcuno l’ha chiamato il “paradosso della prevenzione”. Se si tratta di abitudini o fattori di rischio diffusi il guadagno totalizzato dalla popolazione va ben oltre quello realizzato dalla persona.
Questo crea dei conflitti all’interno della società perché impone delle scelte per esempio, in tema di distribuzione delle risorse. “In breve – nota Rose – in medicina spesso le iniziative apparentemente molto ragionevoli per il singolo possono non esserlo affatto se si allarga lo sguardo alla comunità delle persone, alla società. ottimizzare l’assistenza per i singoli malati o porta a ridurre le risorse disponibili per altre attività e altre persone, oppure fa salire i costi che altri dovranno pagare e c’è dunque un innegabile conflitto individuo-società”.
Ci sono differenze nodali tra la medicina riparatrice, che interviene in caso di danno o in condizioni di alto rischio, e che utilizza farmaci, e la medicina preventiva. La prima è irruenta e edonista. In caso di successo determina cambiamenti visibili che rallegrano il malato per il fatto di portarlo fuori pericolo e gratificano il medico per la riuscita dell’intervento. la medicina preventiva invece è discreta, lavora sulle lunghe distanze, e verificarne gli effetti benefici richiede anni di studi complessi. In ogni caso continua a essere quella più feconda di risultati.
Se scorriamo la lista dei primi sette killer delle persone con meno di 65 anni scopriamo questo elenco: infarto cardiaco, incidenti stradali, polmoniti e bronchiti, cancro al polmone, cancro alla mammella, suicidio e ictus. Se mettessimo in pratica ciò che sappiamo sulla prevenzione di queste malattie, la mortalità totale tra tutti gli adulti si ridurrebbe di un quarto.”Nell’era dell’ottimismo scientifico – nota Rose – si pensava che la medicina avesse per le mani o stesse per trovare le risposte ai problemi della nostra salute: se il presidente degli Stati Uniti avesse dato soldi a sufficienza, il cancro sarebbe stato vinto. Questo genere di ottimismo è fuori moda, tranne che sui media. La medicina, è vero, ha trovato risposte efficaci a molti problemi della salute e dei modi per attenuare i sintomi delle malattie in molti altri casi. E tuttavia resta la necessità di fare ancora moltissimo per prevenire le malattie e ridurne l’incidenza.”
Permane l’interrogativo se vorremo farlo sul serio.
Rose, scomparso alla fine del 1993, ha trascorso la sua vita a Oxford, consumando le sue giornate di epidemiologo tra curve di sopravvivenza e deviazioni standard. persona discreta, sarà ricordato per un’idea che fece clamore e destinata a smentire le cure fasulle, quella degli studi clinici in doppio cieco. Semplice, ironico, spesso severo e impietoso con la medicina, questo suo libro dovrebbe diventare un cult book. Sarebbe un’occasione di arricchimento non tanto per i suoi eredi ma per i medici e la coscienza collettiva.