Niente istogrammi, né grafici a torta e nemmeno curve che mostrano l’andamento del mercato. L’attenzione di una platea gremita composta da scienziati, giornalisti, semplici interessati e scolaresche liceali, Gunter Pauli – economista belga e ideatore della Blue economy – se l’è conquistata con immagini di rane, coleotteri, vortici d’acqua, ragni e foreste pluviali. Anche Galileo era lì, alla fondazione Aurelio Peccei di Roma, alla lecture organizzata insieme a WWF in collaborazione con UniCredit, per farsi spiegare come si possa fare business a impatto zero. Ma che c’entrano anfibi e insetti?
“Prendendo ispirazione dalla natura e dal funzionamento degli ecosistemi possiamo fondare un nuovo modello economico che superi quello consumistico, basato solo sul core business, il guadagno immediato, e che trascura gli effetti collaterali come l’indebitamento dei consumatori e il prosciugamento delle risorse naturali, senza preoccuparsi di risarcire i danni. Questa è la red economy che ci ha condotto alla crisi attuale. Ma dobbiamo andare oltre anche la green economy, che con il nobile intento di proteggere l’ambiente chiede maggiori investimenti alle imprese e mette sul mercato prodotti più costosi. Un modello pensato per i ricchi e non per tutti”, spiega Gunter Pauli con un’abilità oratoria rodata in anni di conferenze in giro per il mondo.
A partire infatti dal 1994, quando fondò il network Zeri (Zero Emissions Reserach and Initiatives, www.zeri.org), una rete di scienziati, imprenditori ed economisti, impegnati a sviluppare processi produttivi a cascata, dove cioè gli scarti di un ciclo diventano materie prime di un altro, Pauli si è speso molto per diffondere il verbo della Blue economy: “proteggere l’ambiente non basta, bisogna rigenerarlo, imitando i processi della natura e utilizzando tutto ciò che si ha a disposizione. Anche se puzza”.
Come si fa in Benin, dove gli scarti dei macelli vengono utilizzati per allevare vermi che forniscono mangime per pesci e quaglie, ma anche medicinali per curare le ferite, perché gli enzimi contenuti nella loro saliva si sono rivelati efficaci allo scopo. E’ bastato uno studio sul British Medical Journal per convincere un imprenditore di Lipsia a copiare il modello africano.
Nel suo libro Blue economy (Edizioni ambiente) di esempi come questi Gunter Pauli ne racconta 100. Si tratta di innovazioni tecnologiche che hanno trovato nella natura la loro musa ispiratrice, necessitano di investimenti bassi, rispettano l’ambiente e creano posti di lavoro. Insomma un miracolo che può suscitare un legittimo scetticismo: quanto sono realistici questi progetti?
“Non solo sono realizzabili, ma già realizzati”, risponde Pauli con l’evidenza di un elenco di imprese già avviate che stanno crescendo e assumendo personale in varie parti del mondo. Un’azienda svedese produce depuratori d’acqua sfruttando la strategia dei vortici appresa osservando i fiumi scorrere, al centro di Madrid si coltivano funghi sui fondi di caffè, al Fraunhofer Insitute in Germania è stato messo a punto un prototipo di telefono cellulare che funziona senza batteria, sfruttando le differenze di temperatura tra corpo e apparecchio, lo stesso sistema che permette al cuore di una balena di pompare 1.000 litri di sangue con un dispendio energetico di appena 6 volt.
Il catalogo potrebbe proseguire con il manto bicolore delle zebre che, sapientemente riprodotto sulla superficie di un edificio, garantisce l’abbassamento della temperatura di 5 gradi, o con i fili della ragnatela in grado di eguagliare le prestazioni del titanio, o con l’abilità dei coleotteri del deserto del Namib di accumulare acqua per periodi lunghi e riuscire a sopravvivere in zone in cui cadono 1,27 cm di pioggia l’anno. L’ insetto è stato imitato per realizzare un sistema che cattura vapore dalle torri di raffreddamento e recuperare il 10% dell’acqua perduta.
Con buona pace di chi si aspettava un discorso sui massimi sistemi, la soluzione che Pauli propone per voltare pagina non è altro che un puzzle composto da frammenti isolati che, almeno in apparenza, fanno fatica a incastrarsi tra loro. Viene da chiedersi allora come possano sporadiche iniziative far fronte alle richieste di un pianeta che nel 2050 arriverà a ospitare 9 miliardi di abitanti. Cosa sono in grado di fare quelle 100 realtà locali in assenza di direttive politiche globali?
“La natura non prende posizioni ideologiche, non fa piani d’azione, ma agisce nel momento. Inutile delegare ai politici e agli accordi internazionali decisioni che possono essere prese subito e possono risolvere problemi immediati. Le piccole iniziative crescendo di numero possono diventare un processo macroeconomico. La blue economy non si accontenta di tutelare l’ambiente, ma intende spingersi verso la rigenerazione in modo tale da garantire risorse per tutti e sempre” spiega Pauli.
Un cambiamento culturale che ci impone di rivedere alcuni punti che avevamo appena cominciato a dare per assodati. Primo: non ha senso spendere di più per salvare l’ambiente. In questo modo i consumatori si indebitano, l’economia arranca e i posti di lavoro si riducono. Secondo: il commercio equo e solidale non combatte la povertà nei paesi in via di sviluppo e per lo più inquina l’ambiente perché aumenta i trasporti. L’economia deve innanzitutto utilizzare prodotti locali e garantire impiego agli abitanti del luogo. Last but not least: prima di investire soldi per nuovi piani energetici vale la pena sfruttare gli impianti già esistenti, come è accaduto in Buthan dove sui piloni sono state montate turbine eoliche.