Legalizzare il doping: favorevoli o contrari?

Quando si parla di doping, salta subito alla mente il recente caso di Lance Armstrong: nel gennaio di quest’anno il ciclista più famoso al mondo ha confessato in un’intervista a Oprah Winfrey di aver usato sostanze illegali – eritropoietina, cortisone e altri ormoni – durante la sua carriera (vedi Galileo: Armstrong, come cambia la guerra al doping). Armstrong, però, non è un caso isolato. In realtà il doping è una prassi comune in molti sport, e campioni di primissimo piano in quasi tutte le discipline sportive sono stati coinvolti in questi scandali. Come si può arginare questo problema? Sarebbe meglio legalizzare le sostanze dopanti o continuare con un approccio di “tolleranza zero”? È questa la discussione presentata sulle pagine del British Medical Journal, in cui tre esperti inglesi, un professore di etica e due medici, espongono argomenti a sostegno o a favore della legalizzazione dell’uso delle sostanze dopanti nello sport.

A favore della legalizzazione si è espresso Julian Savulescu, professore di etica presso l’Università di Oxford, secondo il quale l’approccio usato finora di “tolleranza zero” verso qualsiasi forma di doping non funziona. Un numero sempre crescente di campioni in diverse discipline sportive fa ricorso all’uso di sostanze illegali per migliorare le proprie prestazioni e l’uso di controlli anti-doping fatti a caso non permette di identificarli tutti in maniera sistematica. Basti pensare, per esempio, che dei dieci atleti che dal 1998 a oggi hanno corso i 100 metri in meno di dieci secondi, solo due non sono stati finora accusati di doping. Uno di questi è Usain Bolt.
 
Secondo l’autore, la legalizzazione delle sostanze dopanti permetterebbe di monitorarne l’uso da parte degli atleti, di definire le quantità permesse e di assicurarsi che non siano dannose. In questo modo si ridurrebbe enormemente il mercato clandestino di composti chimici non testati e potenzialmente pericolosi che potrebbero causare danni gravi o addirittura la morte. La lista dei “medicinali permessi” dovrebbe escludere quelli che “distorcono o corrompono” la natura dello sport, ossia il tentativo di migliorarsi e superare i propri limiti nel confronto con gli avversari. Esempi di queste sostanze sono i beta-bloccanti che riducono il tremolio delle mani in sport di tiro al bersaglio in cui una mano ferma è essenziale, o quelle che eliminano la paura in sport estremi o nella boxe. Al contrario, anti-infiammatori, analgesici e farmaci con effetti simili che accelerano il recupero della condizione fisica dopo gare intense o dopo infortuni, riducono la stanchezza e rendono i riflessi più pronti potrebbero essere ammesse.

Contrari alla legalizzazione del doping sono invece Leon Creaney dell’University Hospital di Birmingham, e Anna Vondy del Royal Liverpool Hospital, secondo i quali “vietare il doping è un dovere non solo medico, ma prima di tutto morale”. Uno dei maggiori rischi di un “doping legale” potrebbe essere quello di costringere gli atleti che vogliono gareggiare in “maniera pulita” ad adattarsi o a ritirarsi, poiché sarebbero svantaggiati rispetto ai loro avversari.

L’uso generalizzato, per quanto controllato, di sostanze dopanti intaccherebbe anche l’effetto benefico dello sport a livello sociale, aggiungono i medici. Infatti, gli atleti spesso rappresentano modelli di vita soprattutto per i giovani. La loro abilità ad allenarsi in maniera diligente e rigorosa è una fonte di ispirazione per molti ragazzi e dimostra che impegnandosi si possono ottenere risultati straordinari. Con il “doping legale” chiunque potrebbe ottenere risultati eccezionali, tradendo lo spirito meritocratico e di arricchimento personale dello sport.

Un ulteriore rischio della legalizzazione evidenziato dagli autori è che in paesi totalitari, in cui la gloria degli sportivi potrebbe essere vista come riflesso del potere del regime politico, potrebbe favorire lo sviluppo di programmi governativi di doping come quelli sviluppatisi negli anni ‘70 e ‘80 nella Germania dell’Est e in altri paesi.

Secondo Creaney e Vondy quindi la risposta al problema della crescente diffusione di sostanze illegali nello sport non è la legalizzazione, bensì l’attuazione di un sistema di controlli più severo, con test anti-doping condotti in maniera ubiquitaria su tutti gli atleti in tutte le discipline sportive. In questo modo, diventerebbe molto difficile evitare di essere scoperti e la tendenza a doparsi diminuirebbe. Inoltre, le pene dovrebbero essere più severe. “Se la positività a un test risultasse in una squalifica a vita – concludono gli autori – il rischio sarebbe troppo grande, per cui un numero sempre minore di atleti ricorrerebbe a queste sostanze, ritornando così a uno sport più sano”.

Riferimenti: Bmj doi: 10.1136/bmj.f6150

Credits immagine: emilio labrador/Flickr

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