Antropausa: è questo il termine comparso per la prima volta, qualche settimana fa, sulle pagine di Nature Ecology&Evolution. I ricercatori guidati da Christian Rutz del Centre for Biological Diversity, School of Biology dell’Università di St Andrews nel Regno Unito se ne sono serviti per indicare il brusco rallentamento e, in alcuni casi, l’arresto delle attività umane avvenuto durante la primavera del 2020, a causa della pandemia di Covid-19. Per la prima volta nella storia recente, la nostra specie è stata costretta a bloccarsi. La nostra, appunto. Perché invece le specie animali non si sono fermate affatto. Ce lo hanno dimostrato le centinaia di foto e video circolate sui media nei lunghi mesi del lockdown, immagini che ritraevano la cosiddetta “natura che si riprendeva i suoi spazi”: paperelle in giro per le strade di Parigi e Roma, delfini e cetacei nei mari di città come Trieste e Anzio, addirittura un’incursione di un puma tra le vie di Santiago del Cile. Ma se da quelle immagini sembrava emergere solo l’aspetto positivo su fauna e flora mondiale del nostro stop obbligato, uno studio coordinato dall’Università degli Studi di Milano, pubblicato su Biological Conservation, svela un aspetto meno rassicurante degli effetti del lockdown sulla fauna selvatica.
Un grande esperimento non programmato
“Come per tante attività di ricerca in quel periodo, anche noi ci siamo trovati costretti, in quanto confinati in casa, a bloccare tutti gli studi di conservazione ambientale”, racconta a Galileo Raoul Manenti del Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell’ateneo lombardo e primo autore dell’articolo. “Questo però è stato il punto di partenza per il nostro studio: è vero che non potevamo spostarci dalle nostre case, ma avevamo l’occasione di poter analizzare, come mai prima d’ora, l’effetto dell’attività umana sugli animali, osservando, su tutto il territorio italiano, cosa accade quando questa si interrompe bruscamente”.
Un grande esperimento a cielo aperto, quindi, con gli scienziati dentro casa e non sul campo. Il primo ostacolo è stato reperire i dati: è qui che sono venute in soccorso le immagini degli animali in contesti urbani, rimbalzate da un social all’altro.
Con l’umanità in quarantena, in tutto il mondo gli animali si riprendono le città
Queste segnalazioni, catalogate in maniera sistematica, hanno consentito un preliminare studio a distanza del comportamento della fauna in assenza dell’uomo. A queste notizie si sono aggiunti dati empirici derivanti da progetti osservazionali a lungo termine e di citizen science, in cui gli scienziati e quei cittadini che potevano, durante qualche passeggiata, segnalavano la presenza di animali: gli stessi dati poi venivano paragonati con quelli delle stesse zone di anni precedenti. Per ottenere un quadro il più completo possibile, inoltre, ai manager delle aree protette italiane sono stati inoltrati questionari sull’andamento dei progetti di conservazione.
Quando l’uomo non c’è i rospi… attraversano
Una situazione inaspettata che ha portato sfide inaspettate. “Non è stato facile capire se i dati raccolti indicassero la presenza di animali in luoghi insoliti come diretto effetto del lockdown o se in realtà questa non fosse una novità”, continua Manenti. “Ad esempio sono stati registrati, anche in contesti urbani, versi di uccelli che in quelle zone non si erano mai sentiti: quello che non sappiamo esattamente è quanto la riduzione dei rumori provenienti dall’attività dell’uomo possa aver influito su questi dati”.
Paesaggi sonori, il lockdown in 10 suoni
Ci sono però delle eccezioni: significativo è stato il decremento della mortalità stradale degli anfibi. Ogni anno, in primavera, infatti, rospi e rane migrano verso gli specchi d’acqua per deporre e fecondare le uova: impresa che può diventare kamikaze, se si considera che spesso nel tragitto sono presenti strade trafficate. Le automobili mettono in pericolo l’incolumità degli anfibi al punto che negli anni sono nate associazioni di volontari che aiutano i rospi ad attraversare la strada: se nel 2019 sono stati travolti, in tutti i siti presi in considerazione, 408 rospi e 16 rane, il 2020 ha visto una diminuzione drastica: 38 rospi uccisi e nessuna rana. I nuovi girini sono salvi: la natura ha ripreso i suoi spazi. Oppure no?
Un equilibrio precario
Lo studio svela in realtà che le cose non sono affatto come potevamo aspettarci: il lockdown sembra aver avuto anche ripercussioni negative sulla fauna selvatica, con buona pace dei rospi. Ad esempio, la mancanza di frequentazione delle aree protette da parte di sorveglianza e appassionati ha portato all’aumento dei fenomeni di bracconaggio. Inoltre, molte delle segnalazioni sui social si riferivano ad animali appartenenti a specie invasive (animali estranei che si riproducono velocemente e soppiantano le specie tipiche di quel luogo, mettendo in pericolo gli ecosistemi). Le aree protette solitamente cercano di preservare questo delicato equilibrio occupandosi sia di attività di eliminazione delle specie invasive, sia di conservazione delle specie autoctone, ad esempio favorendo la nidificazione degli uccelli o la riproduzione degli anfibi nativi.
Tutte attività che a causa del lockdown hanno subito una brusca frenata: dai questionari è emerso che nel 75% dei parchi nazionali e regionali contattati le attività sono state interrotte, mentre nel 44% dei casi è emerso un forte rischio di fallimento di azioni di gestione già intraprese. “Non aver potuto operare né sull’eradicazione delle specie invasive, né sulla conservazione di quelle native, in particolar modo in primavera, un momento delicato per la riproduzione”, dice Manenti, “ha rischiato di compromettere tutto quello che era stato fatto nelle aree protette durante gli anni precedenti. Se è vero che in ambito urbano, in cui il territorio cambia repentinamente ed è fortemente antropizzato è l’uomo che crea un ambiente con una certa fauna, nelle aree protette ci sono ancora quelle condizioni che consentono alla fauna selvatica nativa di viverci. Per questo la gestione della fauna non deve essere trascurata”.
Prove generali per il futuro
Mentre si analizza l’inedito effetto di una pandemia sull’ambiente e sulla fauna selvatica, quello che emerge veramente è il delicato rapporto tra la popolazione umana in continua espansione e l’equilibrio ambientale, in un futuro che presumibilmente vedrà meno risorse economiche destinate a questo campo.
“Il vero problema adesso sarà reperire i fondi per continuare i progetti di conservazione in atto che sono stati interrotti e iniziarne nuovi”, osserva Manenti. “Non si dovrebbe dimenticare che è importante occuparsi del rapporto tra attività umana e territorio, anche e soprattutto alla luce della crisi ambientale che stiamo attraversando”. Crisi ambientale che minaccia sempre di più la fauna selvatica: il Wwf ha appena lanciato l’allarme con un report secondo cui le popolazioni di animali selvatici sono diminuite di oltre due terzi in meno di 50 anni.
Un “declino catastrofico” che non accenna a rallentare e che, in assenza di interventi concreti, metterebbe a rischio anche la sopravvivenza stessa dell’umanità. La pandemia di Covid-19, afferma sempre il report, è stato un duro promemoria di quanto gli esseri umani siano intrecciati con l’ambiente in cui vivono: che la natura con il lockdown abbia ripreso degli spazi già antropizzati forse non significa molto, ma cercare di preservare quelli in cui è più incontaminata si può ancora fare.
Riferimenti: Biological Conservation
Credits immagine di copertina: Erwan Hesry on Unsplash