Cromosoma X, regione Xq28; cromosoma 8, regione 8q12. Sarebbero annidati laggiù da qualche parte, secondo una ricerca appena pubblicata da Alan Sanders e Michael Bailey sulla rivista Psychological Medicine, quelli che rozzamente – ed erroneamente – sono noti come geni dell’omosessualità. In altre parole, caratteristiche del patrimonio genetico in qualche modo collegate all’orientamento sessuale maschile. Gli scienziati sono arrivati a questa conclusione cercando i tratti comuni nel genoma di 409 coppie di fratelli gay dopo un’analisi durata oltre sette anni. Si tratta, però, di un risultato da prendere con le pinze. E da accompagnare a molti caveat.
La ricerca delle basi genetiche dell’omosessualità è una sfida scientifica iniziata oltre vent’anni fa. Tutto è iniziato con uno studio pubblicato su Science nel 1993 da Dean Hamer, allora in forze al National Institutes of Health (Nih). Nel lavoro, Hamer e colleghi studiarono il ruolo della genetica nell’orientamento sessuale maschile su 114 famiglie di uomini omosessuali, notando “tassi crescenti di orientamenti omosessuali negli zii materni e nei cugini maschi dei soggetti, ma non nei loro padri o parenti paterni”, il che suggeriva “la possibilità di trasmissioni [genetiche] legate al sesso in una porzione della popolazione”. Successivamente, i ricercatori isolarono 40 famiglie con due fratelli gay: analizzando i linkage genetici nel loro dna, evidenziarono una specifica regione del cromosoma X, chiamata Xq28, che indicarono essere responsabile, “con un intervallo di confidenza statistica di oltre il 99%”, di influenzare “almeno un sottotipo di orientamento sessuale maschile”.
Lo studio di Hamer – che oggi ha lasciato la professione ed è regista di documentari – innescò grandi dibattiti, sia di carattere scientifico che culturale. Dal punto di vista della scienza, infatti, un campione di soli 40 individui è troppo piccolo per trarre una conclusione a prova di dubbio. Tra l’altro, tutti gli studi eseguiti in seguito per validare i risultati di Hamer hanno dato risultati confusi e contrastanti tra loro, il che ha fatto seriamente dubitare della riproducibilità – e di conseguenza dell’attendibilità – dell’esperimento originale. Alcuni specularono che l’identificazione di eventuali geni dell’omosessualità avrebbe portato con sé troppe conseguenze discriminatorie per i gay (tanto per dirne una, sarebbe stato possibile, almeno in linea teorica, pensare a un test prenatale per l’omosessualità: su questo torneremo più avanti); altri – specialmente gruppi ultra-religiosi di estrema destra – attaccarono Hamer perché convinti che l’omosessualità non potesse avere alcuna base biologica. “Per molto tempo, cercando su Google il mio nome, avreste trovato gruppi di estremisti che dicevano fossi un bugiardo”, racconta Hamer (abbiamo controllato: è vero).
Nel 2004, l’équipe di Michael Bailey, psicologo alla Northwestern University dell’Illinois, si è messa al lavoro per ricontrollare i risultati di Hamer. Stavolta su un campione molto più grande.“Penso che Dean [Hamer] abbia fatto uno studio molto buono, ma troppo piccolo”, ha commentato Bailey. “Se avessi dovuto scommettere, avrei puntato contro la nostra capacità di replicare i suoi risultati”. Nel 2004, Bailey ha iniziato a reclutare famiglie con almeno due fratelli gay per effettuare un’analisi genetica, alla ricerca di regioni di dna consistentemente condivise da persone con un tratto comune. Funziona così: i ricercatori cercano le posizioni di marker genetici noti come polimorfismi di singolo neuclotide (o Snps), cioè differenze di una singola lettera nel codice genetico. L’unico tratto comune a tutti gli 818 uomini coinvolti nello studio era l’omosessualità. Dal momento che i fratelli non erano identici, non avevano gli stessi geni, e tutti gli altri tratti, come colore dei capelli, altezza e intelligenza, variavano tra ogni fratello nella coppia e tra tutte le coppie. Di conseguenza, secondo gli scienziati, ogni Snps trovato nelle stesse posizioni genetiche è probabilmente associato all’orientamento sessuale.
Dall’esperimento è risultato che i cinque Snps più comunemente condivisi venivano dalle regioni Xq28 e 8q12 dei cromosomi X e 8, rispettivamente. Gli stessi identificati da Hamer. Anche se i risultati fossero confermati, comunque, è bene precisare che lo studio non ha individuato i geni dell’omosessualità. Entrambe le regioni contengono parecchi geni, e ancora non si sa quali di essi siano effettivamente legati (né in che modo lo sarebbero) all’orientamento sessuale. Nonostante Sanders, un altro autore del lavoro, dica di avere già parecchi risultati in merito, gli scettici non mancano. E si appigliano proprio a questo: il linkage genetico, la tecnica utilizzata dall’équipe di Sanders e Bailey, è ampiamente superata, perché permette, per l’appunto, di identificare solo regioni che contengono dozzine o centinaia di geni. E infatti oggi è molto più comune la cosiddetta genome-wide association (Gwa), una tecnica che studia quanto spesso uno specifico gene è associato con un certo tratto di una popolazione. Secondo Sanders, tuttavia, uno studio di linkage era l’unico modo per replicare e verificare gli studi di Hamer.
Neil Risch, genetista alla University of California, San Francisco, che ha lavorato a uno studio più o meno analogo nel 1999 (ottenendo risultati opposti rispetto a Bailey), sostiene che i risultati dei colleghi non siano statisticamente significativi e che il loro lavoro dei “non chiarisce il ruolo della regione Xq28”. In proposito, Sanders ammette che il collegamento più chiaro è quello relativo al cromosoma 8, mentre Xq28 “non supera la soglia di significatività”, anche se si dice convinto che entrambi i risultati siano plausibili.
La ragione di tanto interesse per il cromosoma X sta nel concetto di selezione naturale. Da tempo, infatti, gli scienziati si chiedono quale sia il ruolo evolutivo dell’omosessualità, una caratteristica che apparentemente va a svantaggio della conservazione della specie, data l’assenza di fecondità degli omosessuali. La spiegazione più convincente sembra essere la cosiddetta selezione sessualmente antagonista, cioè una selezione che svantaggia uno dei due sessi a vantaggio dell’altro. Il meccanismo è stato studiato, tra gli altri, dagli italiani Andrea Camperio Ciani (psicologo del comportamento dell’Università di Padova), Paolo Cermelli e Giovanni Zanzotto (matematici dell’Università di Padova e dell’Università di Torino, rispettivamente). Un loro lavoro, pubblicato nel 2008 su PloS, mostra che, se esistessero uno o più geni dell’omosessualità mappati sul cromosoma X, le femmine di consanguinei maschi omosessuali avrebbero un certo vantaggio riproduttivo: “Le cifre”, spiega Camperio Ciani, “dimostrano che nelle popolazioni dove maggiore è l’incidenza di persone omosessuali si registra anche una maggiore fertilità femminile. Siamo di fronte a una sorta di ‘strategia di selezione dei geni’ da parte della natura”. Con il loro modello, gli scienziati avrebbero dimostrato tutti e quattro gli assunti da cui era partita la loro ricerca: “L’omosessualità maschile è presente in tutte le popolazioni della terra; nessuna popolazione è totalmente composta da gay; l’ereditarietà è asimmetrica, legata al ramo materno; i gay hanno da parte materna nonne, zie, cugine che fanno più figli rispetto alla media”.
Un’altra possibile spiegazione coinvolge invece l’epigenetica. Tutti i fenomeni, cioè, che cambiano l’espressione dei geni in modo temporaneo. Una sorta di interruttori, in sostanza – in gergo sono chiamati epimarcatori – che consentono di attivare e disattivare un gene in risposta a determinati fattori esterni. E che talvolta, ma non sempre, possono essere trasferiti da una generazione all’altra, pur non alterando la sequenza delle basi del dna. Ad avallare l’origine epigenetica dell’omosessualità è uno studio pubblicato nel 2012 sulla rivista The Quarterly Review of Biologyda William Rice e Sergey Gavrilets: secondo gli scienziati, alcuni epi-marcatori specifici per il sesso, prodotti nelle prime fasi dello sviluppo fetale per proteggere il feto da variazioni eccessive di testosterone, quando trasmessi da padre a figlia o da madre a figlio potrebbero causare l’effetto opposto, portando per esempio alla femminilizzazione di tratti nel figlio maschio.
Detto questo, è bene ribadire che, in ogni caso, l’omosessualità non può avere solo basi genetiche. È lo stesso Sanders a specificarlo: tratti umani così complessi non possono che dipendere da una molteplicità di fattori, tra cui quello ambientale. Ancora non si sa quanto pesi ciascuno di questi fattori; ma comunque, come racconta sul New Scientist Chad Zawitz, un medico che ha partecipato allo studio di Bailey, “è importante contestualizzare le scoperte. Anche se si scoprisse un legame genetico con l’omosessualità, i geni potrebbero solo aumentare predisposizione ad essere gay, qualora fattori ambientali, culturali, nutrizionali (e altri fattori sconosciuti) siano presenti nelle fasi critiche dello sviluppo dell’individuo”. Un’eventuale scoperta in questo senso, dice ancora Zawitz, potrebbe rivelarsi addirittura controproducente: “Qualcuno potrebbe usare questo risultato per mostrare che l’omosessualità sia il prodotto di un gene deviato da correggere. I genitori potrebbero richiedere un test genetico per il proprio figlio prima che nasca, per esempio. O, ancora peggio, un governo potrebbe imporre aborti obbligatori per ripulire il pool genetico”. Sembra assurdo. Ma era lo stesso Bailey, poco più di dieci anni fa, a paventare una soluzione del genere (un po’ meno cruenta, fortunatamente): “Supponendo, come noi, che l’omosessualità sia del tutto accettabile moralmente”, si legge nell’abstract del lavoro Parental Selection of Children’s Sexual Orientation, pubblicato su Archives of Sexual Behavior, “[…] permettere ai genitori di selezionare figli eterosessuali sarebbe moralmente accettabile. Questo perché i genitori sarebbero più liberi di educare i figli come vogliono, perché selezionare l’eterosessualità potrebbe portare beneficio a genitori e figli, e perché è improbabile che causi danni significativi”. Un’affermazione che, nel 2014, ci sembra poco condivisibile.
Credits immagine: EnriqueMéndez/Flickr
Via: Wired.it