(Università Campus Bio-Medico di Roma) – C’è anche il sangue di Mauro Maccarrone, Ordinario di Biochimica presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma, sulla navicella spaziale decollata qualche giorno fa in direzione della Stazione Spaziale Internazionale: una speciale macchina dotata di otto contenitori con i suoi campioni ematici, vari composti e tutta la tecnologia necessaria a percepire come la micro-gravità modifica le caratteristiche delle cellule ossee umane è decollata, infatti, dalla base russa di Baikonur con la navetta spaziale Soyuz, nell’ambito della missione VITA (Vitalità, Innovazione, Tecnologia e Abilità).
Capire gli effetti della micro-gravità sulle ossa
Del viaggio fa parte, per la terza volta, l’astronauta italiano Paolo Nespoli. E sarà proprio lui a dare avvio alla procedura di attivazione dei micro-pistoni e dei cilindri dell’apparecchiatura, che inietteranno – con un processo automatico a tempi pre-programmati a Terra dai ricercatori – vari composti nel sangue presente nei contenitori. Questi ultimi sono lunghi ciascuno 10 centimetri, larghi 4 e profondi 5. Al termine, il tutto sarà ‘congelato’ sottozero, affinché le istantanee che fotografano le modificazioni subite dalle cellule ematiche al trascorrere delle settimane nello Spazio possano essere osservate e analizzate a Terra dagli scienziati, mostrando loro il progredire nel tempo degli effetti della micro-gravità sulle cellule del sangue. Obiettivo: trovare conferme sull’origine dell’osteoporosi così da poterla curare e, soprattutto, prevenire.
Le staminali degli astronauti
Il progetto SERISM, lanciato alcuni mesi fa con un kick-off meeting presso la sede dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), vede tra i partner coinvolti anche l’Università di Tor Vergata e quella di Teramo, oltre a NASA ed ESA. Come spiega il prof. Maccarrone, principal investigator di SERISM, “scopo primario dell’esperimento è quello di affrontare in modo innovativo il problema dell’indebolimento dell’apparato scheletrico umano”. Una questione che tocca innanzitutto gli astronauti. Le cui ossa – com’è noto – dopo alcuni mesi in micro-gravità nello Spazio perdono in modo importante densità ossea. “Con queste sperimentazioni – spiega il docente – capiremo se è possibile velocizzare il ripristino delle loro condizioni di massa ossea normale attraverso il prelievo, prima che partano, di cellule staminali presenti nel loro sangue che sono poi capaci di evolvere in cellule ossee, come abbiamo dimostrato in passato”. Se tutto funzionerà, diventerà possibile ripristinare la corretta densità ossea umana non più grazie a una terapia o a una medicina. “Basterà – spiega Maccarrone – dare ad alcune cellule staminali ematiche degli astronauti gli stimoli giusti per trasformarsi in osteociti, prendendo il loro sangue e attivandolo perché si differenzi, per poi reimmetterlo nel loro circolo”.
Dalla ricerca nello spazio nuove armi contro l’osteoporosi
La ricerca, negli obiettivi del progetto, non sarà però limitata agli astronauti, ma punterà anche a trovare nuove possibilità per combattere l’osteoporosi: quel processo che, in parte per la diminuzione degli stimoli del movimento degli arti, in parte per problemi nel funzionamento di particolari molecole regolatrici, chiamate endocannabinoidi, genera dopo i 50 anni la cosiddetta osteopenia, cioè la carenza di ‘materiale’ osseo nell’apparato scheletrico. “La seconda parte del progetto – chiarisce Maccarrone – verificherà se siamo riusciti a individuare alcuni ‘segnali’ responsabili del processo d’indebolimento osseo, i cosiddetti endocannabinoidi. Si tratta di sostanze molto accreditate in tal senso nel mondo della ricerca. Per questo abbiamo pensato di sfruttarli nello Spazio per comprendere meglio il meccanismo dell’osteoporosi”.
Lo Spazio fungerà da acceleratore dei processi cellulari: come per altri casi, cioè, offrirà alla Scienza, in modo accelerato, la possibilità di valutare e ‘fotografare’ modificazioni e alterazioni molecolari che sulla Terra si verificano molto più lentamente con il progredire dell’età. “Se capiamo quello che succede lassù – sottolinea il docente – avremo un nuovo e importante strumento da usare a livello preventivo per le patologie proprie dell’invecchiamento. In questo esperimento spaziale, in particolare, punteremo su un ‘pacchetto’ di segnali nuovo, mai studiato da nessuno, certamente non nello Spazio. Se va come speriamo, dopo la valutazione in laboratorio dei campioni biologici rientrati dall’ISS, potremo proporre di sfruttare gli endocannabinoidi come ‘bersagli’ terapeutici o come spunto per costruire nuovi farmaci anti-osteoporosi”.
Il ruolo degli endocannabinoidi e del recettore CB2
Gli endocannabinoidi sono molecole simili agli ormoni, che vanno ad agire su particolari recettori. Uno di questi, chiamato ‘CB2’ (recettore cannabico di tipo 2) è stato proposto, in un recente studio pubblicato su Nature Medicine, come elemento fondamentale per modulare l’omeostasi ossea, ovvero il rimodellamento dell’osso. La sua carenza, quindi, potrebbe essere una causa importante di osteoporosi. “Gli endocannabinoidi – aggiunge Maccarrone – agiscono come dei ‘segnalatori’ di un cambiamento: controllano il metabolismo osseo. Se, quindi, si è in grado di recepire modificazioni in questi segnali, sarà possibile verificare che il recettore CB2 è alterato e siamo, perciò, all’inizio di un’osteopenia”. “Quello che è noto ai ricercatori – spiega ancora Maccarrone – è che dove c’è osteoporosi il recettore CB2 si mostra carente: abbiamo già dati sperimentali secondo i quali, se lo blocchiamo, le trabecole ossee (le tipiche strutture di cui è costituito l’osso) risultano bucate come un groviera”.
Imparare a utilizzare i ’segnali’ di queste molecole, dunque, potrebbe fornire alla Medicina nuove vie per prevenire o curare la carenza di ‘materiale’ osseo tipica dell’osteoporosi. Non solo per gli astronauti, ma anche, magari, per i 200 milioni di persone (dati: Lega Italiana Osteoporosi) che, sulla Terra, sono affetti da questa ‘non-malattia’. Che, pure, solo in USA ed Europa, è all’origine ogni anno di circa 2,3 milioni di fratture.