Lotta alla fame, ma senza grinta

Si è aperto nei giorni scorsi a Roma il World Food Summit: cinque giorni di dibattito, incontri bilaterali e tavole rotonde per cercare una soluzione alla mancanza di cibo che nel mondo affligge oltre 800 milioni di esseri umani. Un vertice programmato nel 1996 quando venne lanciato l’obiettivo di dimezzare entro il 2015 il numero di persone che soffrono di denutrizione e malnutrizione. Un vertice atteso, a quanto sembra, solo da chi ha davvero fame. Assenti, infatti, i “grandi” del mondo, rappresentati dai loro sottosegretari e ministri dell’agricoltura. Mancano George Bush, Tony Blair, Jacques Chirac, Gerhard Schroeder e tra i leader dei 29 Paesi aderenti all’Organizzazione per lo Sviluppo Economico e Sociale Europeo (Ocse), solamente due hanno accettato l’invito: per ragioni formali, non potevano dare forfait Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio del Paese che ospita il summit, e il premier spagnolo Josè Maria Aznar, presidente di turno dell’Unione Europea. E così, del centinaio di capi di Stato e di governo presenti al summit romano, la quasi totalità proviene dal Sud del mondo. A sei anni di distanza, tra i quattro mila delegati al World Food Summit predomina la delusione: gli affamati nel mondo sono diminuiti al ritmo di sei-otto milioni l’anno, contro i 25 previsti nel 1996. Un andamento che, se continuasse, ritarderebbe di 45 anni il traguardo fissato per il 2015, amplificando i numeri della tragedia che vede ogni giorno 24 mila esseri umani morire di fame o di malattie legate alla denutrizione. A rendere il futuro ancor meno roseo contribuisce anche l’Aids, un’epidemia ormai di massa per molti Paesi del continente nero che, per questo, nei prossimi 20 anni rischia di perdere il 26 per cento della forza lavoro agricola.Tra le ragioni del fallimento dell’obiettivo, il venir meno dei finanziamenti promessi dai Paesi avanzati, ridotti complessivamente del 40 per cento nel corso dell’ultimo decennio. In particolare, secondo le statistiche dell’Ocse, tra il 1993-94 e il 1998-99, gli aiuti allo sviluppo da parte degli Usa sono diminuiti del 4 per cento, quelli dall’Ue del 2,6 per cento. Nel complesso, gli aiuti per l’agricoltura dei Paesi del Terzo Mondo da parte degli Stati industrializzati sono passati dai 16 miliardi di dollari di dieci anni fa ai nove miliardi di oggi. Tutto questo fa sì che il principale programma operativo della Fao (400 milioni di dollari di budget) sia finanziato al 60 per cento dagli stessi Paesi che ne beneficiano. Che poi, a guardar bene, sono cifre ridicole se si pensa che l’investimento complessivo dei Paesi Ocse nei propri settori agricoli è mille volte superiore al bilancio Fao (anche se inferiore a quanto spende una multinazionale per ogni campagna pubblicitaria). Grazie a questo, la produttività dell’agricoltura occidentale è 17 volte superiore a quella del Terzo Mondo, dove, invece, il 70 per cento di coloro che muoiono di fame vive in zone rurali che non producono abbastanza cibo. Uno dei motivi è che le coltivazioni irrigate sono pochissime: in Africa, per esempio, costituiscono appena il quattro per cento delle terre coltivate. In verità, come ha ricordato il segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan, nel mondo di cibo se ne produce abbastanza. La sua disponibilità, però, è limitata a una minima parte dell’umanità, se è vero che il 20 per cento della popolazione della Terra utilizza l’80 per cento delle risorse disponibili. Questo è quanto stabilisce “un ordine mondiale immorale”, come lo ha definito Jacques Diouf, dirigente dal 1993 della Fao. A mancare, ha proseguito il leader senegalese, “è la volontà politica da parte dell’Occidente di dare priorità al problema della fame”. Se questi sono i presupposti, che cosa ci si può aspettare dal vertice romano? Nonostante l’ottimismo espresso da Annan all’apertura del summit, si direbbe molto poco. Tutto sembra già stabilito, tanto che già nella prima giornata di lavori, è stata approvata con facilità una bozza di risoluzione finale che fa piazza pulita su ogni possibile trattativa per l’adozione di un “codice di condotta internazionale sul diritto all’alimentazione”, sostenuto anche dall’Italia, e per un controllo più serrato sugli organismi geneticamente modificati, da molti ritenuti pericolosi per l’uomo per l’ambiente. Su quest’ultimo punto si è raggiunto un compromesso riconoscendo il diritto ai Paesi affamati di scegliere se utilizzarli o meno, “in modo sicuro e adatto alle condizioni locali”. Un compromesso, tuttavia, che più che un espediente per combattere la fame, sembra essere un cavallo di Troia in favore degli Stati Uniti, maggiori produttori ed esportatori di sementi ogm. Il documento infine ribadisce la solenne promessa di portare “soltanto” a 400 milioni il numero degli affamati entro il 2015. Una promessa, a dir la verità, poco confortante, che nasconde, tuttavia, il timore per l’occidente di essere invaso da imponenti flussi migratori e la minaccia di una povertà capace di generare violenza.

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