L’uomo che abolì il manicomio

Mario Colucci, Pierangelo Di Vittorio
Franco Basaglia
Bruno Mondadori, Milano
pagg. 330 £ 26.000 13.43 euro

“E’ una legge transitoria, fatta per evitare i referendum e perciò non immune da compromessi politici. Attenzione quindi alle facili euforie. Si tratta di una piccola vittoria”. È il 12 maggio 1978. All’indomani dell’approvazione della legge 180 che sancì nel nostro paese la chiusura dei manicomi, Franco Basaglia si esprimeva così in un’intervista rilasciata a La Stampa, ammettendo da subito che la storica riforma aveva dei limiti. In un momento in cui sarebbe stato facile recitare la parte del vincitore e del liberatore, Basaglia “riesce ancora a essere scandaloso con la sua radicalità”. È forse uno dei passaggi decisivi per comprendere lo stile intellettuale dello psichiatra veneto, che metteva sempre tutto in discussione, anche quella che poteva essere considerata la più attesa delle vittorie. Si trattava di un atteggiamento attento a non confondere le tappe necessarie di un percorso anti-istituzionale, mai del tutto concluso, con nuove “trappole ideologiche”. Non solo. La necessità di mettere in crisi continuamente il ruolo di medici e psichiatri, “anche e soprattutto quando la battaglia contro il manicomio sembra ormai vinta”, è elemento peculiare di una visione allo stesso tempo scientifica, filosofica e politica assolutamente originale. Proprio al valore culturale dell’azione e della riflessione teorica di Basaglia è dedicato il volume di Colucci e Di Vittorio, la prima monografia sull’argomento, con lo scopo di ridare una giusta collocazione alla sua figura nel panorama culturale del Novecento e sottrarne il nome alle polemiche sul funzionamento della legge 180, che forse troppo spesso hanno nascosto il senso della rottura filosofico-scientifica da lui operata.

Sin dagli anni Cinquanta, ancora alla clinica di malattie nervose e mentali di Padova, Basaglia veniva chiamato ironicamente “il filosofo” dal direttore della clinica Giovan Battista Belloni. Lo psichiatra veneto si era infatti avvicinato, mediante letture personali, all’esistenzialismo e alla fenomenologia. A partire da quelle riflessioni, si formano in Basaglia i riferimenti per denunciare in modo radicale la crisi della psichiatria, che avrebbe reso il malato mentale un oggetto senza volontà, senza speranze, portandolo alla distruzione testimoniata dalle condizioni in cui si trovava nel manicomio. L’accusa di Basaglia è innanzitutto alla pretesa della psichiatria classica di poter affrontare la malattia mentale da un unico punto di vista e di risolverla completamente nell’ambito di una singola disciplina. Da una scienza che vorrebbe ridurre l’uomo a oggetto, bisogna dunque passare “a una visione generale dei problemi umani che tenga conto dell’uomo nella sua globalità”. Nel rifiuto radicale della psichiatria classica Basaglia non respinge pertanto la scienza in generale, ma anzi esprime la volontà di ripensare una nuova psichiatria. Questa riflessione deve però partire dall’abolizione del manicomio. In questo modo si spiega anche il passaggio dalla rottura filosofico-scientifica a quella pratico-politica. Come osservano Colucci e Di Vittorio, “la politica non è una risposta alla follia, è stata soltanto in un certo momento storico, il modo più radicale di tenere aperta la sua domanda”. L’invito alla contestazione è radicale e continuo. Riguarda la scienza, le istituzioni, ma anche e soprattutto se stessi. Basaglia diffida insomma di chi perde il coraggio di “vivere nelle contraddizioni del reale”, di chi non vuole più mettersi in discussione di fronte ai propri presunti successi. Anche per questo la sua lezione risulta ancora attuale e andrebbe forse ricordata.

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