Un’occasione – giuridica – per discutere pubblicamente il tema del fine vita. Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, aveva parlato così in merito al suo processo che lo vede imputato per aiuto al suicidio nel caso di Fabiano Antoniani (dj Fabo), al via l’8 novembre, davanti alla Corte d’assise di Milano. Era stato lo stesso Cappato ad autodenunciarsi e a chiedere il giudizio immediato: “Perché voglio che in Italia finalmente si possa discutere di come aiutare i malati a essere liberi di decidere fino alla fine”, aveva detto nell’occasione: “Sia quando lottano per vivere, sia quando decidono di fermarsi. Il processo sarà un’occasione per discuterne ed è bene che sia il prima possibile”.
Un’altra occasione è, o forse meglio sarebbe, quella della politica. Ma è un’occasione che procede a passi lenti. Dopo l’approvazione alla Camera dello scorso aprile, la proposta di legge sul testamento biologico è ferma al Senato. Un limbo contro cui si sono appellati sindaci di diverse città e senatori a vita, chiedendo l’approvazione del testo senza ulteriori modifiche. L’Italia rimane dunque ancora in balia di un vuoto normativo sul fine vita, a cui vicende come quella di dj Fabo sono una triste risposta.
Fabiano Antoniani, meglio noto come dj Fabo, era un ragazzo di 39 anni, diventato cieco e tetraplegico nel 2014 dopo un incidente stradale. Dopo anni di sofferenza, senza prospettive di miglioramento e terapie efficaci, appelli a politici e istituzioni perché avesse possibilità di scegliere sulla propria vita, rivolgendosi anche al parlamento perché prendesse decisioni in merito al fine vita, aveva trovato aiuto e sostegno nell’Associazione Luca Coscioni.
E in modo particolare in Marco Cappato, il tesoriere dell’associazione che lo ha accompagnato in Svizzera, dove dj Fabo è morto in una clinica ricorrendo al suicidio assistito, pratica legale in questo paese. “Ha scelto di andarsene rispettando le regole di un Paese che non è il suo”, aveva detto Cappato in quell’occasione, annunciando la morte di Fabo, lo scorso 27 febbraio. “Voglio ringraziare una persona che ha potuto sollevarmi da questo inferno di dolore – aveva fatto sapere Fabo – questa persona si chiama Marco Cappato, e lo ringrazierò fino alla morte. Grazie Marco, grazie mille”.
Oggi Cappato rischia fino a 12 anni di carcere. Perché le accuse a suo carico – dopo che le richieste di archiviazione avanzate dalla Procura non erano state accettate – rientrano nella violazione dell’articolo 580 del codice penale, norma risalente al 1930, il quale recita: “Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da 5 a 12 anni”. Un’accusa quantomeno criticabile nel caso in questione: “Marco Cappato ha sì aiutato dj Fabo a recarsi in Svizzera per la pratica del suicidio assistito, così come lo ha aiutato nel reperire le informazioni, ma l’accusa di istigazione al suicidio è inconsistente: Fabo aveva già deciso e applicare questa norma in merito alle questione del fine vita è una follia”, commenta a Wired Marilisa D’Amico, docente di diritto costituzionale all’Università statale di Milano.
Anche perché a ragionare in tema di fine vita, va avanti la D’Amico, “la stessa incongruenza della norma – relativamente a questo aspetto e a questo caso – emerge analizzando più a fondo la legge, che non punisce chi tenti di procurarsi il suicidio, riconoscendo dignità alla volontà della persona, all’autoderminazione. La stessa che si chiede di riconoscere con le leggi sul fine vita, con il riconoscimento delle libertà in materia della propria vita”. Non è affatto illogico se si pensa al periodo fascista in cui questa legge venne promulgata, quando le ideologie della razza, dell’integrità e il rischio emulazione erano diffusi, ma applicarla nell’ambito del fine vita sì e in questo caso, ribadisce D’Amico. “Solo valorizzando il riconoscimento di una libertà di scelta in merito alla disposizione del bene vita da parte del soggetto che ne è titolare, si può comprendere lo scarto tra la scelta di politica criminale di non punire il tentato suicidio e quella retrostante alla fattispecie dell’art. 580 c.p., di punire quanti agevolano il suicidio altrui”, riportava in proposito la costituzionalista nel suo intervento durante un seminario organizzato dall’Associazione Luca Coscioni in merito al caso Cappato. Alla luce del riconoscimento della dignità della persona, dell’autoderminazione, del fatto che dj Fabo aveva già deciso di porre fine alla propria vita, in piena coscienza e capacità di intendere e di volere, l’accusa a Marco Cappato, per D’Amico, perde di vigore.
I possibili esiti del processo, a questo punto, sono tre. L’assoluzione è il primo, perché i fatti contestati non rientrano nell’articolo 580. Il secondo è la sospensione del giudizio, in quanto il giudice della Corte d’assise ritenga fondato il dubbio di incostituzionalità della norma e sollevi la questione di fronte alla Corte costituzionale. “Ci sono i presupposti per credere la norma incostituzionale, in quanto viola articoli 2,3, 13, 32, e 117, relativamente alla libertà personale, alla volontarietà delle cure, del consenso informato”, precisa D’Amico, che aggiunge come l’applicazione della legge in materia vacilla anche di fronte al diritto internazionale, per esempio: “per interferenza con i principi di tutela del diritto alla vita famigliare e privata dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti umani e delle libertà fondamentali”, come ha ricordato anche Vladimiro Zagrebelsky al convegno promosso dall’Associazione Luca Coscioni in materia di autoderminazione terapeutica e fine vita, alla fine di ottobre. “La terza possibilità, che mi auguro non venga neanche presa in considerazione, è che Marco Cappato sia condannato”, conclude D’Amico.
via Wired.it
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