Un vaccino contro il melanoma come nuove possibilità terapeutica nel campo dell’immuno-oncologia. A far ben sperare sono i risultati preliminari di uno studio di fase 1 pubblicati su Science relativi al trattamento di tre pazienti colpiti da melanoma, ottenuti potenziando le naturali capacità di difesa dell’organismo, in questo caso mediate dai linfociti T, cellule del sistema immunitario che fanno parte della famiglia dei globuli bianchi.
Quello dell’immunoterapia in campo oncologico è un trattamento ancora molto recente e bisognoso di miglioramenti ma la stessa rivista Science, nel 2013, lo ha “eletto” il più importante traguardo scientifico dell’anno (e noi ve ne avevamo parlato qui).
Lo studio in questione è stato condotto negli Stati Uniti sotto la supervisione di Gerald Linette dell’Università di Washington, ed ha coinvolto tre pazienti sottoposti a un intervento di resezione chirurgica della massa tumorale originale che però si era già diffusa e aveva creato metastasi a distanza. Per loro il team di ricercatori ha quindi cercato di mettere in campo una diversa strategia terapeutica.
Come prima fase era necessario identificare un (nuovo) bersaglio da colpire. Per farlo, gli scienziati hanno confrontato gli esoni (porzioni di Dna che codificano per le proteine) delle cellule di melanoma con altre cellule sane dello stesso tipo e prelevate dallo stesso paziente. Questo ha permesso di identificare dozzine di mutazioni che rendono possibile l’innesco della trasformazione tumorale della cellula, della proliferazione della massa e della sua resistenza ai farmaci al sistema immunitario. Una parte di queste mutazioni comporta la comparsa di particolari antigeni sulla superficie cellulare, i quali sono stati osservati e catalogati dagli scienziati: i bersagli cercati.
Gli antigeni infatti sono sostanze che provocano la produzione di anticorpi e che, quindi, provocano una reazione immunitaria specifica. Nel caso dei tumori, tuttavia, questo meccanismo smette di funzionare in maniera efficace e il tumore riesce a proliferare in maniera incontrollata. L’idea degli scienziati americani è stata quindi quella di fare in modo che il sistema immunitario fosse “addestrato” a riconoscere gli antigeni tumorali (in modo simile a quel che accade nei vaccini tradizionali contro i diversi agenti patogeni).
Per farlo hanno prelevato dal sangue dei pazienti una parte delle cellule dendritiche, anche loro componenti del sistema immunitario e che fanno parte delle cellule presentanti l’antigene. Il loro ruolo, cioè, è quello di individuare i bersagli e indicarli ai linfociti T, che poi si occupano di attaccare e distruggere le cellule tumorali. Le cellule dendritiche prelevate sono state quindi messi in contatto in vitro con gli antigeni tumorali e coltivate in laboratorio in modo da espanderne il numero.
Le cellule dendritiche così ottenute sono state re-infuse ai pazienti tre volte nel corso di quattro mesi. In uno dei pazienti le metastasi polmonari si sono ridotte di dimensioni, prima di riprendere a crescere per poi stabilizzarsi per un periodo di otto mesi; il secondo paziente ha visto le proprie metastasi non aggravarsi o diffondersi per un periodo di nove mesi e nel terzo caso la malattia è stata dichiarata in remissione ma il paziente era in terapia anche con altri farmaci.
I risultati di questo vaccino personalizzato vanno valutati con la cautela, in quando si parla di uno studio di fase 1, condotto su solo tre casi e che ha il compito unicamente di valutare la sicurezza e la tollerabilità di un terapia, e non la sua efficacia. Senza contare che i test sono stati effettuati su pazienti che erano in terapia anche con altri farmaci in grado di interagire con il sistema immunitario. Ciò non toglie che si tratti di un’opzione terapeutica degna di essere approfondita, concludono gli scienziati, con criteri più stringenti e studi più ampi.
Riferimenti: Science Doi: 10.1126/science.aaa3828
Credits immagine: Ed Uthman/Flickr CC