I progressi compiuti finora nel campo dell’intelligenza artificiale sono stati certamente notevoli e gli esempi sono numerosi. Ma questi risultati sono tuttavia ancora ben lontani dalle speranze più volte prospettate in passato, dal tempo dell’introduzione dei primi calcolatori elettronici in poi. Un evento importante, che risale al 1997, fu la sconfitta di Garry Kasparov, campione mondiale di scacchi, da parte del supercalcolatore IBM Deep Blue, costituito da 1,4 tonnellate di hardware (1) opportunamente programmato. In realtà Deep Blue vinse la famosa partita essenzialmente perché era in grado di esaminare qualcosa come duecento milioni di possibili mosse al secondo, cioè più grazie alla sua straordinaria velocità che a qualche sfoggio di intelligenza.
Ma il vero problema è che anche i più potenti sistemi di intelligenza artificiale realizzati finora sono programmati per svolgere un compito ben determinato, e solo quello. Deep Blue, per esempio, si è dimostrato eccezionalmente bravo negli scacchi, ma come si sarebbe comportato nel gioco della briscola? Perché quello che interessa è realizzare sistemi in grado di svolgere efficacemente una pluralità di compiti, possibilmente riuscendo a cavarsela anche in situazioni relativamente complesse e mutevoli senza che sia necessario riprogrammarli. Come si richiede nel campo della robotica, in particolare per quanto riguarda i veicoli autonomi.
Proprio in questo ambito, del resto, i sistemi realizzati finora non si sono dimostrati pienamente all’altezza. Per esempio nella prova Great Challenge (2), svolta nel 2007, i veicoli competitori dovevano compiere un percorso urbano rispettando le regole del traffico ed evitando incidenti; ma dopo poche ore di marcia quasi la metà di essi, pur dotati di sensori raffinatissimi e di calcolatori molto potenti, vennero eliminati per aver violato le regole o per aver causato incidenti. E qui ricordiamo che la gara era sponsorizzata dall’agenzia statunitense DARPA, che si occupa di progetti di ricerca avanzati per la difesa e che è impegnata nel favorire lo sviluppo di autoveicoli in grado di muoversi autonomamente in presenza di ostacoli. L’esigenza è di natura militare, dato che l’esercito degli Stati Uniti è interessato a dotarsi di veicoli autonomi allo scopo di ridurre le perdite umane nei conflitti.
Ma l’interesse è notevole anche per le possibili ricadute in campo civile. Ora è noto da tempo che i limiti alle prestazioni dei sistemi basati sui calcolatori usuali derivano dalla natura stessa di queste macchine, in particolare dalla loro struttura fondamentale alla von Neumann, nella quale la parte relativa alla memoria è ben separata da quella che invece svolge i calcoli, e dalla loro modalità operativa, che prevede l’esecuzione in sequenza di una serie di compiti elementari, seguendo le istruzioni di un programma. Questo può certamente prevedere scelte, motivate, fra diverse alternative di percorso, ma sempre con una esecuzione sequenziale, un passo dopo l’altro.
Tutto ciò è assai lontano dal funzionamento del cervello, non soltanto dell’uomo ma anche di un topo o di uno scarafaggio (che nel compiere percorsi accidentati alla ricerca di cibo se la cavano benissimo anche in condizioni difficili). Perché nel cervello gli stessi elementi, i neuroni, svolgono le funzioni di elaborazione e di memoria; e soprattutto perché l’elaborazione delle informazioni si svolge in parallelo, cioè contemporaneamente in tutte le sue parti, anziché in sequenza. Con la naturale conseguenza che l’elaborazione svolta assieme dai venti miliardi di neuroni del topo è estremamente più ricca di quella di un calcolatore usuale, seppur velocissimo.
Realizzare sistemi ispirati al funzionamento del cervello non è certamente una novità, almeno da quando sono state introdotte le reti neurali, che hanno poi trovato anche numerosi impieghi pratici. Ma le reti neurali sono realizzate nella forma di programmi, mentre il necessario hardware è ancora costituito da calcolatori del tipo usuale, caratterizzati sempre dal loro funzionamento sequenziale. Appare dunque interessante, e promettente, lo sviluppo di sistemi “neuromorfici”, basati su una architettura ispirata al cervello, che si avvalga quindi di una componentistica che svolga effettivamente funzioni analoghe a quelle dei neuroni.
Ricerche in questo senso furono svolte negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, ma non condussero a risultati pratici a causa dell’indisponibilità di adeguati componenti (all’epoca denominati componenti adattivi), per realizzare neuroni artificiali in grado di svolgere al tempo stesso funzioni di calcolo, come i circuiti logici usuali, e di memoria. A tal proposito merita ricordare il Perceptron di Frank Rosenblatt e l’Adaline di Bernard Widrow, come pure gli studi di Eduardo Caianiello e della sua scuola.
Le cose sono però cambiate nel 2008 quando nei laboratori Hewlett-Packard è stato realizzato un nuovo dispositivo, il memristore, cioè un resistore dotato di memoria, utilizzando film sottili di biossido di titanio nei quali la conducibilità elettrica è affidata al moto di ioni (3). Più precisamente, la memoria del nuovo componente è rappresentata dalla sua resistenza, la quale dipende dalla carica totale che lo ha attraversato (4). Esso dunque si comporta in modo simile a una sinapsi, l’elemento di contatto fra un neurone e un altro, la cui propensione a trasmettere i segnali dipende dalla storia delle precedenti eccitazioni. Il memristore ha il gran pregio di essere una memoria non volatile, perché mantiene il suo stato di memoria senza richiedere alimentazione, a differenza delle memorie a semiconduttore usuali che devono essere continuamente “rinfrescate”. E anche di essere una memoria analogica, non limitata allo zero e uno delle memorie usuali.
Come leggiamo sulle pagine on-line della rivista IEEE Spectrum (5), la disponibilità di questi dispositivi è alla base di un nuovo progetto di intelligenza artificiale, che mira alla costruzione di macchine in grado di imparare, ragionare, risolvere problemi e prendere decisioni: obiettivo finora mai raggiunto. I compiti sono così suddivisi: l’hardware neuromorfico è affidato a Hewlett-Packard, il software a un gruppo operante presso la Boston University. Il software è stato denominato MoNETA (Modular Neural Exploring Traveling Agent), con riferimento a Giunone Moneta indicata come dea della memoria. Sebbene in realtà il termine Moneta provenga dal latino monere, cioè ammonire, a ricordo del monito lanciato da Giunone al tempo dell’invasione dei Galli, vicenda che precede la successiva dedicazione alla dea della zecca di Roma, da cui deriva l’odierna denominazione del bajocco.
Il programma è ambizioso. In una prima fase si conta di realizzare un gran numero di “animat” robotici, tutti con piccole variazioni nelle loro architetture cerebrali, e di sottoporli a una serie di prove, per selezionare poi quelli che anno fornito le prestazioni migliori. Per giungere quindi alla progettazione dei chip da impiegare nella realizzazione finale. Che, come si è detto, dovrebbe essere in grado, interagendo con l’ambiente circostante, di imparare e di adattarsi efficacemente alle sue mutevolezze. Ma questa ricerca apre anche altre prospettive, fra cui quella di sostituire l’architettura neuromorfica a quella di von Neumann anche nei calcolatori. Quando la miniaturizzazione dei microprocessori, nell’ambito delle tecnologie realizzative attuali, incontrerà, fra alcuni anni, i limiti dovuti alla natura discreta della materia.
NOTE
(1) Oggi realizzabile in forma assai più compatta grazie ai microprocessori di più recente introduzione.
(2) Sapere, giugno 2008; www.darpa.mil/grandchallenge/index.asp.
(3) Un inconveniente è la mobilità degli ioni, di vari ordini di grandezza inferiore a quella degli elettroni e delle lacune nei semiconduttori, che rende relativamente lento il funzionamento del memristore.
(4) Quando la corrente scorre in un verso, la resistenza del memristore aumenta; quando scorre in verso opposto, la resistenza diminuisce. Ma essa non può mai assumere segno negativo, trattandosi di un componente passivo.
(5) http://spectrum.ieee.org/robotics/artificial-intelligence/moneta-a-mind-made-frommemristors
Fonte: Sapere di aprile
Vede gent. prof. Pallottino, il problema è sempre nella partenza, come ebbi modo di scivere, inascoltato dal Prof. Jang e all’esimio Julian Barbour e dal Piergiorgio Odifreddi esimio saccente, il problema stà in una strana visione che abbiamo e che io considero come “sindrome della lavagna”. Propriamente sostengo che abbiamo un difetto nella espressione dei nostri concetti,pur vivendo in un mondo pluridimensionale, pensiamo in bidimensione…e credo proprio a causa del supporto bidimensionale sul quale operiamo per esprimere i nostri concetti.
Quando saremo in grado di pensare in tridimensione forse realizzeremoil calcolatore frattale che ci occorre… Vede io pur riuscendo a dare 53 risposte simultanee diverse ad un segnale emesso, non sono riuscito a comunicare ai tre grandi geni sopra menzionati che forse c’è una diversa strada del pensiero che porta a dare soluzioni diverse ad un problema che sembra essere nella semplice realtà di ciò che ci circonda. Un calcolatore concettuale tridimensionale non ha limiti fisici, non deve calcolare, ogni calcolo è compreso istantaneamente perche il calcolo è nel suo sistema di costruzione concettuale. Una serie di numeri ordinati in una megamatrice frattale tridimensionale, senza soluzione di continuità……..hanno ciascuno una valenza potenziale di contatto stabilita, numerica, ottica, elettromagnetica ..etc, ma forse anche a lei non interessa il ragionamento puro, le formulette imparate a scuolale usa ancora o le servono come bagaglio culturale di base? ne vorrebbe sapere di piùadesempio come trovare senza nessun problema ogni numero primo scorrendo lo stesso sistema di matrice? oppure desidererebbe sapere come si costruisce un cervello tridimensonale partendo dal presupposto che nello stesso istante il pensiero generato mentre viene espresso già genera………..Nel caso potessero interessarle anche modelli grafici…oltre che gli scritti, il mio pensato deve essere ancora pubblicato. Grazie e complimenti per la curiosità che lamuove e che ci muove