La mobilità favorirebbe il successo della ricerca. E le idee non hanno confini, almeno in senso geografico. Questo è quanto emerge da uno speciale, pubblicato sulla rivista Science, dal titolo “Human Migration”. All’interno dell’appronfondimento, l’articolo del giornalista scientifico John Bohannon rivela che, stando ai dati del 2016, i ricercatori più ‘mobili’ – non solo d’Europa, ma anche sul lungo raggio, varcando più spesso i confini del proprio continente – sono quelli del Regno Unito. Sul fronte delle mete, le più ambite sono l’Asia, l’Unione Europea e gli Stati Uniti. I dati emergono dall’analisi della libreria digitale detta Orcid, organizzazione no-profit che contiene i profili di circa 3 milioni di scienziati in possesso di un dottorato di ricerca (PhD). Di questi 3 milioni di ricercatori, provenienti da tutto il mondo, quasi 750mila hanno reso pubblico il curriculum vitae professionale, aiutando ad analizzare le loro tracce lasciate durante gli spostamenti.
In Europa, in media il Regno Unito batte gli altri paesi per numero di scienziati migrati nel 2016: ben un ricercatore su tre si trova all’estero. Invece, le medie Orcid calcolate su tutto il Vecchio Continente indicano che solo il 15% degli scienziati con PhD (uno su sei) dell’Unione Europea vive in nazioni diverse da quelle di origine. Bisogna sottolineare che, nel lavoro di Bohannon, il Regno Unito – ricordiamo, fresco di Brexit – è stato studiato singolarmente, mentre le percentuali relative all’Unione Europea e all’Asia derivano dalle medie effettuate su tutta l’Unione o il continente, rispettivamente.
Guardando oltreocano, fra le mete predilette, l’analisi mostra che i ricercatori degli Stati Uniti si sono recati principalmente in Asia, gli inglesi in Asia e nell’Unione Europea, mentre gli scienziati europei si sono spostati più frequentemente in America (Stati Uniti compresi) e Regno Unito. Gli europei non appartenenti all’Unione Europea hanno scelto invece soprattutto paesi dell’UE stessa. Bohannon rivela che dopo il 2001, e in particolare nel 2002, si è osservato un calo delle migrazioni verso gli Stati Uniti, secondo lui collegabile all’attacco terroristico dell’11 settembre 2001. Un calo pari al 15% fino al 2008, in cui il flusso di cervelli verso gli Usa si è ripreso.
Per gli scienziati muoversi conviene. Sullo stesso numero di Science, l’articolo “A mobility boost for research” rivela infatti che l‘impact factor delle ricerche effettuate da studiosi residenti in paesi diversi da quello di provenienza è più elevato rispetto agli studi degli scienziati che non hanno avuto un’esperienza all’estero. Come se la mobilità dei ricercatori rappresentasse un trampolino di lancio delle loro attività scientifiche.Un tema a parte, invece, quello della ‘fuga dei cervelli’ – intesa come necessità più che come opportunità- che in Italia rappresenta un fenomeno piuttosto significativo. Nel nostro paese, infatti, secondo le recenti stime europee e i dati Istat, nel 2014 circa il 30% di italiani con titolo di studio universitario si è spostato fuori dal Paese. E una migrazione verso l’estero così intensa non viene compensata da un ingresso altrettanto cospicuo di laureati stranieri.
In ogni caso, spostarsi è un’attitudine propria dell’essere umano. Science affronta il tema della migrazione anche da un altro punto di vista: questa abitudine ha coinvolto quasi tutte le popolazioni fin dall’antichità. L’articolo di Ann Gibbons mette in luce che tutti gli europei nati e residenti nel proprio paese sono il ‘frutto’ di almeno tre differenti grandi migrazioni avvenute negli ultimi 15mila anni, di cui almeno due provenienti dal Medio Oriente. Una situazione che avrà ulteriori evoluzioni, nel futuro, legate ai flussi migratori in corso oggi. E non solo quelli degli scienziati.
Riferimenti: Science