Uno stanziamento di un miliardo e 50 milioni di euro per creare l’Istituto Italiano di Tecnologia, già ribattezzato il “Mit” italiano. C’è anche questo nella finanziaria che il governo fa passare in Parlamento a colpi di fiducia. Un centro di eccellenza per la tecnologia, modellato sul celebre istituto di Cambridge nel Massachusetts, in cui convivano formazione e ricerca e che sia in grado di attirare finanziamenti privati per specializzarsi in settori strategici. L’Iit potrà utilizzare beni immobili del demanio e avrà finanziamenti statali per 50 milioni di euro nel 2004, seguiti da 100 milioni per gli anni dal 2005 al 2014. Si candidano a ospitarlo Genova, forte di una fertile tradizione di ricerca industriale altrimenti rara in Italia, e Pisa, avvantaggiata dall’eccellenza della sua istruzione universitaria. L’idea è stata illustrata da Vittorio Grilli, ragioniere generale dello Stato, ad Harvard, a pochi chilometri dal Mit originale. Suscitando, pare, grande entusiasmo tra gli scienziati presenti. Minore entusiasmo nello stesso governo – è critica Letizia Moratti, ministro per l’Istruzione, Università e Ricerca – e soprattutto all’interno del principale ente italiano di gestione della ricerca scientifica: il Cnr. Adriano De Maio, da poco nominato commissario straordinario, ha commentato a caldo: “Che il governo si decida: o mi ha dato l’incarico per finta, e allora me lo deve dire così mi saprò regolare, oppure farebbe bene a non buttare via le risorse e cercare di usare al meglio ciò che già c’è. Così si delegittima l’università e tutta la ricerca italiana”. Successivamente de Maio ha rifiutato di tornare sulla questione, attendendo sviluppi. Un gruppo di direttori di Istituti del Cnr si è fatto sentire con un comunicato stampa: “Il sistema italiano della ricerca”, si legge nel documento, “non ha bisogno dell’invenzione estemporanea di nuovi centri e istituti, con progetti e finanziamenti assolutamente inadeguati alle ambizioni dichiarate ed alla missione ad essi velleitariamente assegnata”. Una valutazione impietosa che si conclude con la richiesta al governo di fermare subito il progetto. Francesco Jovane, che dirige l’Istituto di Tecnologie Industriali e Automazione a Milano, è tra i firmatari dell’appello forse il più coinvolto nei problemi di trasferimento tecnologico e rapporti università/impresa, al centro della missione del nuovo istituto. “Io ho studiato al Mit, quindi non posso certo essere contrario in linea di principio alla nascita di una struttura di quel tipo in Italia”, dice Jovane. La sua opposizione al progetto del governo nasce da considerazioni puramente strategiche. L’Italia, come e più del resto d’Europa, sta arretrando sui mercati internazionali sotto i colpi delle economie dell’Est e dell’inarrestabile innovazione tecnologica statunitense. Con le prime non c’è competizione possibile, perché il costo del lavoro da noi non può scendere ai livelli cinesi. Ma con gli Usa si può competere, purché si facciano scelte chiare e le si persegua con decisione. “Da qui a cinque anni”, continua Jovine, “dobbiamo individuare alcuni settori su cui puntare, con produzioni ad alto contenuto di innovazione tecnologica, altrimenti saremo tagliati fuori”. L’idea del nuovo istituto non è negativa in sé, ma al di là di altre considerazioni, con lo stanziamento previsto (per capirci, il Mit vive di finanziamenti venti volte superiori) non può andare a regime in tempo utile. L’unica chance di rimanere in corsa è puntare sulle strutture già esistenti e potenziarle. “Dietro al Cnr c’è un investimento decennale, il lavoro di persone che hanno dedicato la vita alla ricerca” continua Jovane. “Demoralizzarli spostando l’attenzione su una nuova iniziativa ancora indefinita non può che avere effetti negativi e sottrarre competitività nell’immediato”. Prima valorizziamo l’esistente, conclude quindi lo studioso. Poi, a lungo termine, ci sarà tempo per nuove iniziative e nuovi centri. Ma il Cnr è davvero in grado di raccogliere questa sfida? Visti i suoi travagli negli ultimi anni e la sua struttura pesantemente burocratica, non stupisce poi tanto che qualcuno trovi più facile ripartire da zero e creare qualcosa di nuovo piuttosto che ristrutturare l’esistente. Secondo Jovane, molti istituti del Cnr hanno tutte le potenzialità per svolgere le funzioni che si vorrebbero assegnare all’Iit. Purché vengano fatte scelte strategiche precise. “Dobbiamo avere il coraggio di puntare all’eccellenza in alcuni settori, a costo di lasciare perdere gli altri”, dice. Oggi arrivano in Italia giovani da tutto il mondo per studiare musica o restauro, prosegue: perché non può succedere anche per qualche disciplina scientifica? Certo, non per tutte: la fuga dei cervelli è destinata a continuare, ma non è un male in assoluto purché non avvenga in tutte le discipline. Il punto, insomma, dicono i direttori del Cnr, è che tirare fuori dal cappello un nuovo istituto in questo momento, per di più con una generica specializzazione in “tecnologia”, non è il miglior modo per dimostrare di avere le idee chiare, quando è proprio di idee chiare, prima che di fondi, che si sente la mancanza nella ricerca italiana.