Dimenticare cosa si stava facendo, essere disorientati nello spazio, inciampare nelle parole, possono essere i primi segnali di un declino cognitivo. E quando la malattia è in fase avanzata si arriva a perdere i ricordi di una vita. Ma vengono colpite anche la capacità di giudizio, di elaborare un discorso e di pensare in maniera consequenziale. Il morbo di Alzheimer, insomma, mette gradualmente in ginocchio il cervello.
Subdolo, penetrante, costante. La malattia di Alzheimer è la più diffusa forma di demenza e colpisce 50 milioni di persone al mondo, 600mila solamente in Italia, e si prevede che saranno 70 milioni nel 2050. Ma nonostante la sua ampia diffusione, la malattia è ancora un enigma per i medici. La ricerca è frenetica e proliferano gli studi che cercano di far luce sui meccanismi con cui la patologia si accende e avanza. Ci sono stati passi in avanti, sì, ma anche qualche battuta di arresto. E si lavora anche per per migliorare la prevenzione, la diagnosi precoce, per identificare tutti i sottotipi della malattia, così da arrivare infine a trovare terapie mirate e risolutive.
Le cause della malattia di Alzheimer
Nel cervello, i neuroni sono connessi fra loro e comunicano attraverso le sinapsi. Queste piccole strutture favoriscono il passaggio di particolari sostanze chimiche, i neurotrasmettitori, che, come dei messaggeri, trasportano le informazioni da un neurone ad un altro. Nel morbo di Alzheimer questa comunicazione viene letteralmente interrotta. La causa esatta non è ancora ben chiara: un’ipotesi piuttosto accreditata è che tutto inizi quando alcune proteine, come la betamiloide e la tau, smettano di funzionare correttamente. Queste sostanze si accumulano in ammassi via via sempre più grandi e danno il via a una serie di eventi tossici che uccidono i neuroni. Le placche amiloidi, ad esempio, sono oggi considerate come la principale manifestazione dell’Alzheimer e anche gli aggregati neurofibrillari, grovigli di proteina tau, sono stati associati alla malattia.
I fattori di rischio
Nella maggior parte dei casi alla base della malattia c’è un mix di fattori che si combinano fra loro: da quelli genetici a quelli legati alle esperienze e alle abitudini di vita. Su alcuni non possiamo intervenire, come la familiarità genetica, l’età, comorbidità che aumentano il rischio come la sindrome di Down e i traumi alla testa (anche se questo elemento è dibattuto). Anche essere donne risulta essere un fattore di rischio, dato che il sesso femminile risulta mediamente più colpito dall’Alzheimer: tuttavia questo fenomeno potrebbe essere collegato alla durata di vita più lunga della donna.
Fra i fattori di rischio su cui possiamo intervenire ci sono il fumo, l’attività fisica, l’obesità, una cattiva gestione del diabete di tipo 2, la pressione e il colesterolo alto. Ma anche un sonno sistematicamente disturbato e bassi livelli di istruzione sono elementi che in certi casi possono contribuire alla probabilità di sviluppare la malattia.
Alzheimer e salute orale
Ma i fattori che possono aumentare la probabilità di sviluppare dell’Alzheimer potrebbero essere anche altri. Per esempio, la presenza di un’infiammazione delle gengive, la cosiddetta parodontite. Il legame fra salute gengivale e morbo di Alzheimer è da tempo sotto l’attenzione dei ricercatori e uno studio recente individua l’anello di congiunzione dei due in un batterio responsabile dell’infiammazione della gengiva. Il batterio potrebbe in certi casi raggiungere il cervello e qui contribuirebbe alla produzione della proteina betamiloide, i cui accumuli sono fra le principali manifestazioni dell’Alzheimer.
La prevenzione è allenamento fisico e cognitivo
Per la prevenzione del morbo di Alzheimer sarebbe dunque bene controllare la salute orale e delle gengive. Ma è essenziale mantenersi in forma con attività fisica regolare e alimentazione sana. Non è un caso che l’80% dei pazienti con la malattia ha anche una patologia cardiovascolare. E oltre all’esercizio fisico, non bisogna sottovalutare quello mentale: vari studi dimostrano che essere sempre allenati a livello cognitivo, con giochi enigmistici, lettura e scrittura, potrebbe essere importante per proteggere i neuroni dal deterioramento. E ancora, prendere parte ad attività sociali, interagire con gli altri e avere legami importanti sono elementi che potrebbero abbassare il rischio di declino cognitivo secondo alcuni studi.
Per una diagnosi precoce del morbo di Alzheimer
Un ambito di ricerca particolarmente vivace riguarda di diagnosi, il più precoce possibile. Attualmente non esiste un esame specifico e la diagnosi a volte rimane generica, riferita genericamente alla presenza di una demenza. Viene effettuata con test cognitivi e esami piuttosto invasivi, che richiedono un prelievo di fluido cerebrospinale, la cosiddetta puntura lombare, o un esame di imaging cerebrale, realizzato con la risonanza magnetica funzionale, o con la Pet. Procedure che però spesso finiscono per essere utilizzate quando la malattia ormai non è più nei suoi stadi iniziali.
Vari studi mettono in luce la possibilità, in futuro, di riconoscere l’Alzheimer da modificazioni del linguaggio o della retina nell’occhio o anche soltanto con un’analisi del sangue. Uno studio recente, inoltre, mostra che chi ha familiarità per l’Alzheimer (con un parente di primo grado) e ha meno di 65 anni potrebbe presentare performance cognitive, fra cui memoria e capacità di apprendimento, ridotte già in giovane età, anche a 20 anni. I ricercatori suggeriscono di provare il test di memoria Mind Crowd sviluppato da the Translational Genomics Research Institute, (attualmente in inglese, spagnolo e cinese). L’obiettivo è individuare persone potenzialmente a maggior rischio per mettere in atto tutte le strategie di prevenzione dell’Alzheimer.
I trattamenti oggi disponibili e quelli futuri
Una prevenzione precoce, anche se ancora non c’è una cura risolutiva per la malattia di Alzheimer, permette di iniziare trattamenti, sia farmacologici sia psico-cognitivi, che possono attenuare temporaneamente alcuni disturbi, come la perdita di memoria, la confusione e problemi del comportamento. Tuttavia questi interventi agiscono sui sintomi, ma non sulle cause: non riescono cioè ad arrestare il danno ai neuroni, che vengono progressivamente distrutti.
Gran parte delle ricerche oggi si concentra su nuovi farmaci che colpiscano gli accumuli di betamiloide e tau, arrestando il processo di morte dei neuroni. Ad esempio, si stanno studiando trattamenti con anticorpi diretti contro la beta-amiloide o con composti che possano colpire le sostanze – ad esempio l’enzima beta-secretasi – che favoriscono la sua produzione. E ancora, ci sono studi per capire in che modo la proteina tau collassa nei pericolosi grovigli.
Un altro fronte di studio riguarda la ricerca di strategie per affrontare i rari casi – meno dell’1% – in cui ci sono mutazioni genetiche alla base della comparsa precoce della malattia. Le persone che hanno queste alterazioni nel Dna svilupperanno con certezza la malattia. Un trial clinico attualmente in corso, condotto dal Dominantly Inherited Alzheimer Network (Dian) sta studiando se l’uso di anticorpi diretti contro la beta-amiloide possano ritardare i sintomi o evitare che compaiano.