Hanno dimensioni nanometriche, cioè pari a milionesimi di millimetro. E per questo sono detti nanomateriali: hanno proprietà chimico-fisiche diverse da quelle dei materiali di partenza, così che i possibili campi di applicazione sono innumerevoli. La produzione di nano-materiali ha un grande potenziale economico e attrae notevoli investimenti. E tuttavia, come spesso accade davanti ad alcune accelerazioni tecnologiche, generano anche qualche timore nell’opinione pubblica, soprattutto riguardo alle possibili ricadute per la salute umana e per l’ambiente. Per fare chiarezza è nato il progetto SUN – Sustainable Nanotechnologies, finanziato con oltre 13,6 milioni di euro dalla Commissione Europea, per rispondere alle domande sui rischi che l’uso dei nano-materiali comporta. Al progetto hanno partecipato oltre venti istituti di ricerca, e rappresentanti di grandi industrie come BASF (la società chimica più grande al mondo) e altre piccole e medie imprese, come Magneti Marelli, Colorobbia e Plasmachem. Ne abbiamo parlato con il coordinatore del progetto Antonio Marcomini, professore di Chimica dell’ambiente all’Università Ca’ Foscari di Venezia.
Professore, dunque i nanomateriali sono pericolosi?
Non possiamo dire che i nanomateriali siano buoni o cattivi in generale. Il senso di questo progetto è proprio quello di entrare nel merito e di valutare la sicurezza d’uso caso per caso. Lo scopo è arrivare a un utilizzo consapevole che ci permetta di sfruttare al meglio le innovazioni portate da questi materiali riducendo al minimo i rischi per salute e ambiente. In questo senso SUN si propone di valutare, per ciascun nano-materiale, le fasi più critiche del suo ciclo di vita facendo una stima precisa del rischio. Questo permette di intervenire nella fase critica e consentire una maggiore sicurezza d’uso per chi lavora a contatto con questi materiali ma anche per gli utilizzatori finali e per l’ambiente.
Quali sono state le diverse fasi della ricerca?
In primo luogo abbiamo raccolto quanti più dati possibile sui nano-materiali. A questa prima fase di raccolta dati è seguita una seconda fase di elaborazione, nella quale abbiamo sviluppato nuovi metodi per prevedere i rischi in una esposizione a lungo termine, abbiamo creato linee guida per la produzione e il trattamento dei nanomateriali, descritto le buone pratiche di lavoro per la prevenzione e la gestione del rischio, per fornire infine le risposte a domande sulla regolamentazione nella produzione di nano-materiali.
In che modo tutto questo lavoro può essere fruibile dai cittadini o dalle aziende?
L’insieme di questi risultati è confluito in un sistema di supporto decisionale inserito in una piattaforma online. Il software si chiama SUNDS e permette di guidare le industrie, i legislatori, le compagnie di assicurazioni e tutte le parti coinvolte, quindi anche i cittadini, nella valutazione del rischio di prodotti e processi che coinvolgono i nano-materiali.
In quanto consumatori, come facciamo a sapere quanti e quali oggetti, alimenti, cosmetici, farmaci, contengono nano-materiali?
Al momento non è possibile valutare agevolmente la presenza di nanomateriali in prodotti commerciali o farmaci, perché non esiste ancora una legge che obblighi le aziende a evidenziare in etichetta la presenza di nano-componenti nei formulati commerciali. Il progetto SUN ha però sensibilizzato i decisori pubblici e privati sulla necessità di questa etichettatura, e alcune aziende si stanno già muovendo nella direzione della trasparenza.
Quali sviluppi futuri prevedete per questo progetto?
I risultati di SUN rappresentano la base di cinque nuovi progetti attualmente in corso. Uno dei più importanti è CaLIBRAte, che ha lo scopo di fornire modelli gestionali del rischio. In sostanza, mentre SUN si è occupato prevalentemente di “valutazione”, CaLIBRAte si occupa della “gestione” del rischio associato all’uso dei nano-materiali.
Articolo prodotto nell’ambito del Master SGP di Sapienza Università di Roma