La moneta unica ha unito l’economia dei Paesi membri dell’Unione Europea, ma sulla politica della ricerca non esiste ancora un programma comune. Così la fuga di cervelli continua a compromettere la capacità dell’Europa di competere con gli Stati Uniti. E’ questo il commento ospitato questa settimana sulle pagine della rivista Nature, per spiegare la continua fuga dei cervelli oltre Atlantico e oltre Manica. Il predominio della lingua inglese, le notevoli differenze tra i sistemi nazionali di accesso alla professione accademica, la varietà delle legislazioni sull’occupazione e la sicurezza sociale sono le ragioni che spingono molti giovani e qualificati scienziati a migrare verso quelle mete. D’altra parte, la Commissione Europea ha sovvenzionato vari programmi per promuovere la mobilità dei ricercatori tra gli Stati membri dell’Ue. Nel 1999, ad esempio, i rappresentanti dei ministeri dell’istruzione di 29 Paesi si sono riuniti a Bologna per armonizzare alcuni aspetti dei sistemi universitari, impegnandosi ad introdurre entro il 2010 metodi simili per conseguire lauree e specializzazioni scientifiche, e un sistema di certificazione e riconoscimenti che permetta agli studenti di spostarsi all’interno dell’Unione. Tuttavia, è soprattutto una carriera nella scienza che possa definirsi “europea” è ben lontana dall’essere progettata. E’, dunque, urgente un cambiamento di mentalità: gli amministratori delle università, gli impiegati addetti all’immigrazione e la società in senso lato devono credere all’entusiasmo che spingerebbe le menti migliori dell’Ue a viaggiare al suo interno e imparare, nello stesso tempo, a considerare i ricercatori stranieri alla stregua di lavoratori desiderosi di offrire le loro qualità a beneficio di chi li ospita, così conclude il commento. (d.d.v.)