Mutilate e private del piacere sessuale per garantire verginità e fedeltà al marito. Ecco perché ogni anno due milioni di donne in tutto il mondo vengono sottoposte al rito dell’infibulazione, una pratica millenaria che vuole le donne, ma più spesso le bambine, amputate della clitoride, delle piccole labbra e con le grandi labbra cucite insieme. Per evitare e arginare gli effetti irreversibili di una tradizione così invasiva, Abdulcadir Omar Hussein, ginecologo e responsabile del Centro regionale contro le mutilazioni femminili, che ha sede nell’ospedale Careggi di Firenze, ha proposto una forma non cruenta di infibulazione, poco invasiva sul piano fisico, ma di identico significato sul piano etico e sociale. Sono 150 milioni in tutto il mondo le donne “infibulate”, che di “aperto” hanno solo una piccolissima fessura, talmente impercettibile da dover essere lubrificata di tanto in tanto con un bastoncino per evitarne la chiusura. Uno spiraglio per consentire al sangue mestruale e all’urina di defluire. E per avere, una volta sposate, rapporti sessuali e, magari, far venire al mondo un bambino. Tutto questo per garantire che le donne siano delle “buone spose”, da nessuno violate nella loro intimità al di fuori del legittimo marito. Non importa con quali conseguenze sulla salute: rapporti sessuali dolorosissimi, alta mortalità di parto, ferite sanguinolente che non si rimarginano. La proposta di Hussein (che, dopo il clamore suscitato sui media dalla sua proposta ha optato per il silenzio stampa perché “stanco di essere frainteso e utilizzato come strumento”) è quella di praticare una puntura di spillo, preceduta da una leggera anestesia sulla clitoride delle bambine. Per salvare il rito con una pratica indolore e non dannosa ed evitare che le donne provenienti da quei paesi che praticano l’infibulazione (circa 30 nazioni fra Africa e Medio Oriente), vietata in Italia, la facciano clandestinamente. Una soluzione, questa, che non convince Cristiana Scoppa, dell’Associazione italiana donne per lo sviluppo (Aidos): “L’esperienza ventennale in questo campo ci ha insegnato che queste donne sono sotto pressione soprattutto da parte dei mariti e delle famiglie. In particolare sono le donne più anziane della famiglia, figure particolarmente autoritarie in Africa, a spingere affinché le figlie delle giovani coppie siano adeguate alla tradizione E una puntura sulla clitoride non risolve il problema, perché i genitali non sono tagliati, richiusi e mancano i segni di una cicatrice”, spiega Scoppa.”. Ritornando in Africa, una bambina o una donna, anche se si presentasse con un certificato di avvenuta infibulazione rilasciato da un’ospedale italiano, verrebbe immediatamente controllata dalla nonna o dalla suocera. E non potrebbe sottrarsi al rito “classico”. Questo perché “una pratica che lascia una donna intatta non soddisfa una famiglia veramente rispettosa della tradizione”, va avanti Scoppa. Come dire che l’approccio “soft” in sostanza non risolverebbe nulla: non sul piano psicologico, perché comunque rinforzerebbe l’idea che la sessualità delle donne è qualcosa di “sporco”, né su quello pratico, perché non garantirebbe alla donna di non doversi sottoporre in un secondo momento alla pratica più cruenta.Ma alle obiezioni di merito seguono anche quelle di principio: l’integrità del corpo è garantita dalla Costituzione italiana, dalla Convenzione dei diritti dell’uomo e da diversi trattati internazionali sottoscritti dall’Italia. “Quindi, accogliendo la proposta dell’infibulazione dolce, si chiederebbe ai medici italiani di violare la legge – non allo scopo di curare una malattia, ma per rispondere a un ‘bisogno culturale’ (per esempio, di preservare l’identità del popolo somalo), del tutto sradicato da fini terapeutici”, spiega ancora Cristiana Scoppa. “Senza contare che da 30 anni in Africa le donne si battono contro l’infibulazione, non accettando nessuna forma, nemmeno quella attenuata della “sunna” (che prevede il taglio del prepuzio della clitoride), perché dicono che anche così l’impianto simbolico di oppressione delle donne attraverso il controllo della loro sessualità resta intatto”. In Italia, tra l’altro, vi sono anche donne provenienti da paesi dove vengono già praticate forme lievi di mutilazioni ai genitali che si battono da anni perché nessuna violazione venga inferta sui loro corpi. “Se noi legittimiamo in un ospedale pubblico una mutilazione soft”, va avanti Scoppa, “di fatto diciamo che l’infibulazione non deve essere neanche prevenuta, rendendo così vano il lavoro compiuto finora da queste donne”.Quale strada rimane allora da percorrere? “Occorre lavorare sulla domanda”, conclude la coordinatrice dell’Aidos, “da un lato su quella individuale, delle donne, con un lavoro quasi ad personam, dentro i villaggi e le comunità. Dall’altro lato, bisogna formare un’opinione pubblica che diventi terreno fertile per l’abbandono di questa pratica. Fondamentale sarebbe, al riguardo, professionalizzare le associazioni che, su base essenzialmente volontaristica, da anni si battono per la tutela dei diritti delle donne, senza alcun supporto finanziario. Solo grazie a un lavoro congiunto dei governi, delle politiche sociali e dei media, le donne di tutto il mondo potranno finalmente essere in grado di rivendicare liberamente la loro opposizione a una pratica mostruosa che di ‘culturale’ ha proprio ben poco”.