Carpire informazioni che ci riguardano direttamente dalla nostra mente per poi pubblicarle o sfruttarle a fini commerciali. O, ancora, modificare i nostri pensieri. Non è fantascienza, ma realtà. Perché oggi anche il nostro cervello, esattamente come un computer o uno smartphone, può essere hackerato. E abbiamo bisogno di nuovi strumenti giuridici che siano in grado di tutelarci. Lo sostengono due ricercatori in un articolo scritto sulla rivista scientifica “Life Sciences, Society and Policy”. Qui il team individua dei nuovi diritti umani grazie a cui punta a proteggere la mente come l’ultima fortezza in cui custodire un bene, ormai, sempre più prezioso: la nostra riservatezza.
“Si tratta di un’esigenza legata all’incredibile sviluppo delle neuroscienze e delle neurotecnologie”, spiega a Galileo Marcello Ienca, studioso di neuroetica e uno degli autori dell’analisi insieme a Roberto Andorno, avvocato che si occupa di diritti umani. Tutto è cominciato nel 1878, quando lo scienziato Richard Canton ha scoperto la trasmissione di segnali elettrici all’interno del cervello di un animale. Quarantasei anni dopo è stata la volta della prima elettroencefalografia. Una scoperta che ha dato il via a quella che viene definita “rivoluzione neurotecnologica”, cioè lo sviluppo di tecniche capaci di comprendere e/o modificare i segnali cerebrali. Come la risonanza magnetica, le interfacce neurali (cioè metodi di comunicazione diretta mente-computer) e neurostimolatori (dispositivi che trasmettono impulsi elettrici a determinate aree del cervello per, ad esempio, migliorare il proprio benessere mentale).
Strumenti che, fino ad ora, sono stati utilizzati soprattutto in ambito clinico. Invece oggi stanno uscendo sempre di più dagli ospedali e riscuotendo successo anche nel settore commerciale. Basti pensare che proprio nelle scorse settimane il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, ha detto di essere al lavoro su un dispositivo indossabile capace di farci scrivere sui social semplicemente sfruttando il pensiero. Mentre diversi magnati della Silicon Valley sono al lavoro su interfacce cervello-pc avanzate. Poi c’è un’intera branca di ricerca, il neuromarketing, che intende utilizzare i processi cerebrali per influenzare il comportamento dei consumatori o analizzarne le preferenze. Come se non bastasse, l’agenzia governativa del Dipartimento della difesa statunitense (Darpa) sta testando molte di queste tecnologie in campo militare. Per aumentare la capacità di concentrazione, o “rimuovere” le memorie dolorose dei soldati.
Queste tecnologie promettono di migliorarci la vita quotidiana. “Delle ricerche recenti, però, dimostrano che possono essere hackerate, oltreché usate a fini malevoli. E attualmente i diritti umani esistenti non coprono tale eventualità”, prosegue Ienca. Ed ecco che gli studiosi propongono quattro diritti “aggiuntivi”. Il primo è il diritto alla privacy mentale che può essere inteso come una estensione del già esistente diritto alla riservatezza, ma maggiormente specifico dato che questi strumenti, per loro natura, non permettono di controllare quali informazioni vengono condivise e quali no. Il diritto all’integrità mentale, invece, ci tutela da eventuali danni dovuti all’hackeraggio o all’abuso di queste tecnologie. Nessun essere umano può essere costretto ad alterazioni della propria sfera psicologica è il principio alla base del diritto all’integrità psicologica. Infine, il quarto diritto è quello alla libertà cognitiva: ognuno è libero di decidere se avvalersi di queste tecnologie o meno.
“Il nostro – conclude Ienca – è un primo tentativo. Vogliamo che sul tema si apra un dibattito pubblico e internazionale, in grado di coinvolgere giuristi, informatici e l’opinione pubblica. Il passo successivo sarà l’articolazione più dettagliata dei diritti in relazione all’evoluzione della tecnologia“.
Riferimenti: “Life Sciences, Society and Policy”