Possono rendere davvero difficile la vita delle cellule cancerose: affamandole, ostacolandone la crescita, modulando le alterazioni dei geni oncosoppressori. Sono i farmaci antitumorali di tipo biologico, frutto delle conoscenze acquisite negli ultimi dieci anni sui meccanismi molecolari di proliferazione tumorale. Agiscono su bersagli mirati e, pur non sostituendo i trattamenti tradizionali (chemioterapia, radioterapia, ormonoterapia), ne sono il complemento o il proseguimento. Uno di essi, il trastuzumab, è oggetto, per la prima volta in Italia, di una sperimentazione multicentrica coordinata dai reparti di oncologia dell’ospedale San Filippo Neri di Roma e dell’Azienda ospedaliera Morgagni-Pierantoni di Forlì.“Si tratta di un anticorpo capace di neutralizzare i prodotti dell’oncogene Her-2/neu nei tumori della mammella che presentano tale fattore di crescita e che sono circa il 20-25 per cento del totale”, ha spiegato Giampietro Gasparini, direttore dell’Unità Operativa Complessa di Oncologia Medica del San Filippo Neri. “Associato ai chemioterapici, il trastuzumab ha indotto regressioni tumorali di non poco conto e ha prolungato la sopravvivenza delle pazienti rispetto a quelle trattate con la sola chemioterapia, come è stato dimostrato da alcune ricerche condotte in Nord America”. Ora, nel tentativo di confermare i dati americani, il farmaco viene testato in Italia nei tumori mammari avanzati Her-2/neu-positivi, associato al più efficace chemioterapico, “valutando in tal modo anche la validità della chemioterapia somministrata a piccoli e frequenti dosaggi”.Ma le speranze per una terapia antitumorale più efficace non si affidano solo a questa molecola. Vi sono, infatti, altri ritrovati farmaceutici capaci di interferire con specifici fattori di crescita tumorale. Lo stesso San Filippo Neri è il primo centro italiano che sta sperimentando, sempre sui tumori del seno, il gefitinib, “un inibitore selettivo dell’enzima tirosin-chinasi, responsabile del fattore di crescita epidermico presente nei tumori solidi”, va avanti Gasparini. Oltre a essere somministrato per via orale, l’Iressa presenta il vantaggio, non indifferente, di poter causare effetti collaterali di modesta entità. La sua efficacia è stata già documentata sui tumori polmonari, della testa e del collo. Due studi, infatti, l’uno realizzato negli Stati Uniti, l’altro effettuato parallelamente in Giappone e in Europa, hanno dato risultati confortanti: le dimensioni del tumore sono diminuite dal 10 al 18 per cento. Il campione era costituito da oltre 500 pazienti affetti da cancro al polmone in progressione, sottoposti a chemioterapia senza alcun risultato. Esattamente come i soggetti coinvolti nell’esperimento in corso presso l’ospedale romano. Si tratta di donne colpite da tumori mammari (dove il fattore di crescita epidermico risulta espresso in circa il 50 per cento dei casi) non responsive alle terapie convenzionali. “Una molecola simile, l’erlontinib”, continua l’oncologo, “sarà testato a partire dal prossimo autunno come possibile terapia dei tumori del pancreas inoperabili”. Vi è infine l’imatinib, un’altra promettente molecola, particolarmente agguerrita contro la leucemia mieloide cronica e i tumori stromali gastrointestinali, che rappresentano la più comune forma maligna di sarcoma del tratto gastro-intestinale. Già approvato dalla Commissione di esperti europea per il trattamento di tali tumori, la molecola sarà al centro di un altro studio multicentrico nazionale che mira a individuare le sue possibili indicazioni terapeutiche in altri tumori resistenti alle terapie classiche. Una sperimentazione proposta dallo stesso Gasparini e da Dino Amadori, oncologo presso il Pierantoni di Forlì, che partirà probabilmente nell’autunno prossimo.Vi sono inoltre farmaci in grado di inibire l’angiogenesi, il processo di crescita di nuovi vasi sanguigni all’interno del tumore, e altri capaci di provocare l’apoptosi, di indurre cioè le cellule “impazzite” al suicidio programmato. “Il San Filippo Neri”, ha affermato lo studioso, “coordina a livello nazionale tre nuovi studi clinici che valutano l’associazione di inibitori della cicloossigenasi 2 (Cox-2) con chemioterapia nei tumori dell’intestino, del polmone e della mammella”. Gli inibitori della Cox-2, ossia dell’enzima che sintetizza le prostaglandine (le sostanze responsabili, tra l’altro, delle infiammazioni) non sono infatti solo degli antinfiammatori: hanno bensì mostrato la capacità di frenare l’angiogenesi e di indurre l’apoptosi. “Il vantaggio clinico più evidente è che i Cox-2 sono farmaci somministrabili per bocca e non aggiungono tossicità significativa ai chemioterapici”.Tutti gli studi passati in rassegna vanno comunque nella medesima direzione: quella di personalizzare la strategia antitumorale, tenendo conto cioè delle caratteristiche biologiche del singolo tumore. “I vantaggi teorici di questo nuovo paradigma terapeutico portano a una maggiore efficacia curativa e quindi a una migliore qualità della vita del paziente. Se questi potenziali vantaggi saranno confermati dagli studi clinici in corso, si attuerà in campo oncologico un significativo progresso terapeutico”, ha concluso Gasparini.