A due anni dalla relazione conclusiva della commissione Mandelli si torna a parlare di uranio impoverito. E le voci che si alzano non sono sempre d’accordo, anzi.
L’Istituto Superiore di Sanità ne ha raccolte alcune in un convegno tenutosi il 19 ottobre scorso a Roma. Se da una parte infatti le campagne di rilevamento nei Balcani effettuate anche da organismi internazionali come l’Unep, il programma per l’ambiente delle Nazioni Unite, e l’Aiea, l’agenzia internazionale per l’energia atomica, non hanno evidenziato una contaminazione diffusa del territorio, dall’altra esiste una contaminazione cosiddetta “a punti caldi”. Che si concentra cioè là dove sono caduti i proiettili all’uranio impoverito. “Oggi sappiamo che questo metallo è intaccato dagli agenti atmosferici e si degrada nel tempo”, ha spiegato durante l’incontro Martino Grandolfo del laboratorio di fisica dell’Iss. “Queste alterazioni vanno tenute sotto controllo a medio e lungo termine perché l’uranio potrebbe contaminare il suolo e l’acqua con rischi per la popolazione civile che vive in queste aree”.
Durante il convegno Nick Priest dell’Università del Middlesex ha comunque esposto alcuni risultati preliminari che escluderebbero una preoccupante contaminazione da uranio impoverito. Ma come è emerso nel dibattito conclusivo, sulla pericolosità effettiva di questo metallo esistono interpretazioni discordanti e alcune voci si sono levate per sottolineare l’assenza di studi finanziati da enti del tutto indipendenti da organismi militari. Secondo Grandolfo “la controversia è prima di tutto scientifica dal momento che le nostre conoscenze sulla radioprotezione si riferiscono all’esposizione esterna all’uranio, mentre in questo caso la principale forma di esposizione è interna.
Schegge di proiettile rimasti nel corpo dei militari, acqua e cibo contaminati, particelle inalate sono i canali attraverso cui l’uranio entra nel corpo umano in un contesto bellico”. La Commissione Mandelli ha raccomandato di individuare i militari e civili italiani che sono stati esposti in Bosnia e Kosovo all’uranio impoverito per inserirli in un programma di controllo sanitario a lungo termine. Paolo d’Argenio, medico del Ministero della Salute, ha presentato durante l’incontro il programma di controlli medici frutto di un accordo tra il ministero e le regioni. Quanti si sono recati in Bosnia e Kosovo hanno diritto a alcuni esami medici gratuiti per tenere sotto controllo il proprio stato di salute.
Difficilmente però questa campagna potrà dare risposte scientifiche sulla correlazione tra uranio impoverito e tumori: per ottenere indicazioni in tal senso bisogna istituire un registro tumori o svolgere uno studio di coorte, cioè una ricerca a cui partecipano volontari selezionati sulla base dell’esposizione al metallo.Antonietta Morena Gatti del Laboratorio di Biomateriali dell’Università di Modena e Reggio Emilia ha ribadito che neppure con le tecniche nanoscopiche usate dal suo laboratorio è emersa la presenza di uranio nei tessuti patologici. “Abbiamo invece trovato qualcosa a mio avviso molto più preoccupante, un vero e proprio inquinamento bellico”, ha detto la ricercatrice. “Nella ventina di militari da noi esaminati erano presenti particelle nanometriche di metalli pesanti, frutto di chimiche ignote, che potrebbero essersi formate con lo scoppio, a oltre 3000 gradi, di proiettili all’uranio impoverito o bombe al tungsteno”. La Gatti è convinta che la sua non sia solo una teoria e afferma che dopo l’attentato dell’11 settembre 2001, circa 200.000 abitanti di New York si sono ammalati a causa dell’inquinamento prodotto dal collasso delle due Torri. “Queste persone manifestano sintomi simili ai veterani colpiti dalla Sindrome del Golfo, riconducibile secondo alcuni all’uranio impoverito”.
Sarebbe dunque l’inquinamento ambientale, vuoi di carattere bellico vuoi dovuto a eventi catastrofici, un possibile sospettato per l’insorgenza di tumori.Gli studi condotti sino a ora dalla Gatti nell’ambito del progetto sulle nanopatologie finanziato dalla Commissione Europea hanno avuto solo carattere osservativo, ma inizierà ora una collaborazione con enti di ricerca newyorkesi per compiere studi clinici su quanti sono “intossicati” dalle nanopolveri. Nel panorama tracciato durante il convegno emerge l’assenza, sino a ora, di uno studio a lungo termine sulla popolazione civile che continua a vivere in queste zone anche se Zora Žunic dell’Istituto nucleare di Belgrado ha presentato alcuni tentativi preliminari di collaborazione con Grecia, Polonia e Russia per compiere queste ricerche.
In realtà il messaggio raccolto dalla giornata di dibattito, al di là delle polemiche, è la necessità di continuare a indagare questo problema per capire quali danni l’esposizione interna all’uranio può provocare e nel frattempo continuare a monitorare chi, in passato, è venuto a contatto con questo metallo.