“Born to run” cantava Bruce Springsteen nel 1975. E non aveva torto, secondo quanto si legge su Nature in uno degli articoli contenuti nello speciale dedicato alle Olimpiadi di Londra 2012 e la scienza. Per i ricercatori e maratoneti Timothy Noakes dell’Università di Cape Town, in Sud Africa, e Michael Spedding dell’Institut de Recherches Servier, in Francia, fu grazie alla corsa che i primi ominidi svilupparono eccezionali capacità cognitive e riuscirono a tenere lontani i disturbi mentali.
Quando circa due milioni di anni fa i nostri antenati iniziarono a camminare su due gambe si misero subito a correre. C’erano prede da catturare, e il modo migliore per farlo era vincerle per stanchezza. La resistenza, spiegano Noakes e Spedding, è stata da sempre il punto di forza degli esseri umani. L’assenza di peli e la capacità di respirare con la bocca diedero loro un vantaggio sugli altri animali: la possibilità di dissipare più efficacemente il calore corporeo, il che significa riuscire a correre più a lungo. Senza contare che gli esseri umani riescono a espellere con il sudore circa 3 litri di liquidi all’ora, un sistema di raffreddamento certamente migliore del respiro affannoso con cui altri mammiferi disperdono il calore.
L’attività fisica, continuano i ricercatori, avrebbe causato profondi cambiamenti a livello cerebrale. Il lavoro muscolare, infatti, favorisce la circolazione della proteina cerebrale BDNF (Brain-derived neurotrophic factor), che nei muscoli promuove il metabolismo dei grassi, e nel cervello aumenta le connessioni neuronali. Per questo potrebbe aver svolto un ruolo chiave per lo sviluppo di regioni cerebrali come l’ippocampo e la corteccia prefrontale, coinvolte nei processi mnemonici, decisionali e il controllo delle emozioni. “Crediamo che l’esercizio fisico abbia contribuito all’aumento dei livelli di BDNF nel cervello degli uomini, portando una serie di conseguenze fisiologiche tra cui una specie di immunità dai problemi psichiatrici, inclusi i comportamenti violenti”, scrivono Noakes e Spedding.
Oggi però, non avendo più la necessità di cacciare, l’esercizio fisico ha un ruolo marginale nella vita umana. Questa indolenza non solo rende più vulnerabili a malattie come l’obesità e il diabete (i topi privati di BDNF ingrassano e si ammalano di diabete), ma minaccia anche la salute mentale (i pazienti con disturbi mentali e Alzheimer hanno livelli di BDNF più bassi del normale nell’ippocampo e nelle regioni corticali). Secondo gli autori, è come se la sedentarietà avesse fatto perdere all’essere umano la “memoria molecolare” di ciò che era, esponendo il cervello a un maggior rischio di ammalarsi.
E i campioni allora? In un altro articolo Juan Enriquez e Steve Gullans della statunitense Excel Venture Management, spiegano che i progressi della scienza hanno svelato l’esistenza di particolari geni capaci di aumentare le prestazioni fisiche delle persone. Per esempio, praticamente tutti i velocisti olimpionici possiedono l’allele 577R, una variante del gene ACTN3 che aumenta la potenza muscolare. Circa la metà degli Euroasiatici e l’85 per cento degli Africani possiede questo fortunato allele, il resto può mettere da parte qualsiasi aspirazione olimpionica. A oggi sono state scoperte oltre 200 varianti genetiche correlate alle capacità atletiche di un individuo, varianti che donano resistenza o la capacità di produrre un numero extra di globuli rossi per il trasporto di ossigeno.
Più genomi saranno sequenziati, tuttavia, più queste varianti saranno individuate. E allora non potrebbe non essere più tanto fantascientifica l’idea di “trapiantare” i geni giusti nel Dna di un atleta per migliorarne le prestazioni fisiche. Ma come accogliere questo nuovo “doping genetico”? E’ la domanda provocatoria che pongono i ricercatori, i quali prospettano un’accoglienza dapprima ostile, man mano sempre più accondiscendente. Dopotutto, basta pensare a un atleta che da bambino è stato curato con terapia genica per una forma di grave anemia. Andrebbe forse escluso da una competizione perché “geneticamente modificato”? Insomma, definire il limite tra lecito e illecito, giusto e sbagliato sarà sempre più difficile. Tanto varrà stare al gioco e continuare, come ricordano Enriquez e Gullans, a sorprendersi con le straordinarie performance degli atleti più forti del mondo, donne o uomini, principianti o veterani, disabili o normodotati che siano.
Riferimenti: Nature
Credit immagine a OskarN/Flickr
chissà se potrebbe essere applicato anche per curare le malattie e persino per ringiovanire