HomeVitaOrdinata per natura

Ordinata per natura

di
Sandro Pignatti

Nelle immagini da satellite del pianeta Terra, la superficie dei continenti appare di color verde, e questo ci fa capire come la condizione naturale, sul nostro pianeta, sia data dall’esistenza di uno strato continuo di vegetazione, che si interrompe soltanto nei deserti e nelle zone polari. Vista da grande altezza la vegetazione ci appare indifferenziata, ma essa in realtà può assumere aspetti diversi: il bosco, il prato, un filare di alberi presentano forme differenti, che si possono percepire immediatamente. Quando poi ci si trova dentro al bosco oppure al prato, ci si rende conto che siamo di fronte a una realtà ben più complessa: l’apparente uniformità del colore verde si risolve in un gran numero di componenti diversi, e si può percepire la presenza delle singole specie vegetali, e dei singoli individui. Essi crescono mescolati, apparentemente senza regola, però in un bosco vediamo che gli alberi formano la chioma sempre alla stessa altezza, anche se sono di età diverse; in un campo, in marzo la superficie è punteggiata di fiori gialli perché stanno fiorendo i ranuncoli, e due mesi più tardi ci sarà invece il rosso dei papaveri oppure il colore celeste dei fiordalisi. Dunque, una regola c’è, sia nella distribuzione spaziale delle piante che nella vicenda temporale dei fenomeni della vita. Da qui si arriva all’idea che nella vegetazione ciascuna pianta occupi una propria posizione e svolga un ruolo ben preciso nel quadro di un processo unitario di auto-organizzazione.

Un sistema aperto

La capacità di auto-organizzazione costituisce una caratteristica generale dei sistemi viventi: questa proprietà viene tuttavia per lo più riferita a fenomeni al livello molecolare e cellulare. Possiamo ora presentare e discutere alcuni esempi di come la vegetazione possa organizzarsi a livello di ecosistema. La vegetazione si può interpretare come un sistema aperto, inserito in un flusso di energia. Si ha una sorgente energetica, nel nostro caso il Sole, che libera energia (come radiazione luminosa e calore). L’energia luminosa è disponibile per tutti i viventi, gratuita e non inquinante. Quando giunge sulla superficie terrestre viene in gran parte dissipata, e soltanto l’ 1-1,5 per cento può venire captato dai vegetali mediante la fotosintesi. Il processo fotosintetico fornisce l’energia, che, per via chimica, viene messa a disposizione del sistema vivente e impiegata nella sintesi di sostanza organica: si avviano in questo modo i cicli metabolici ed i processi respiratori; alla fine la materia vivente verrà completamente ossidata ad anidride carbonica ed acqua, che vengono liberate nell’ambiente e risultano nuovamente disponibili per la fotosintesi, e tutta l’energia proveniente dalla fotosintesi viene dissipata. Secondo questo schema l’ecosistema lavora in continuo, con trasformazioni cicliche, mediante prelievo di energia emessa da una sorgente remota (il Sole) e dissipazione nello spazio alla fine dei processi.Possiamo paragonare il funzionamento dell’ecosistema a quello, a tutti noto, del motore di un’automobile: ci sono aspetti comuni, ma anche differenze, anzitutto il fatto che la sorgente energetica per l’automobile (la benzina) non è gratuita ed è inquinante. In entrambi i casi abbiamo sistemi che impiegano energia per compiere trasformazioni cicliche (nel caso dell’automobile si tratterà delle fasi del cilindro), ed in entrambi i casi l’energia viene impiegata per mantenere la materia in condizioni di movimento: i cicli metabolici nel vivente e lo spostamento da un luogo ad un altro per l’automobile. Però, e questa è una differenza essenziale, il motore a scoppio è una macchina banale, cioè una macchina che produce sempre esattamente il medesimo ciclo in maniera assolutamente ripetitiva (fino a quando non si guasta …), mentre nell’ecosistema i viventi sono in grado di adattarsi alle condizioni esterne, attraverso la variabilità individuale oppure l’evoluzione di nuove specie. Infatti, la vegetazione ha sviluppato la possibilità di una regolazione autonoma dei fattori del microclima e del suolo, possibilità di adattamento ai fattori esterni ed interazioni con altri gruppi di viventi, e tutto questo può venire interpretato come auto-organizzazione.

La dimensione spaziale

La forma più evidente nella quale la vegetazione si auto-organizza nello spazio è la tendenza verso la costituzione di un sistema pluristratificato. Questo si può interpretare come una conseguenza del fatto che la funzione specifica e caratterizzante della vegetazione è la fotosintesi. Ricordiamo che la fotosintesi dipende direttamente dalla superficie esposta ai raggi del Sole. Le piante in generale crescono in verticale, e gli alberi possono raggiungere decine di metri d’altezza, tuttavia l’attività fotosintetica è concentrata nella foglia, che è un organo di forma appiattita, e che in generale contiene un solo strato di cellule in grado di effettuare la fotosintesi: siamo dunque di fronte a una struttura laminare, con uno strato monocellulare di cellule attive (la cosiddetta “palizzata”).La cascata luminosa. Nella foresta si attua un’essenziale regolazione del flusso di energia luminosa: la luce investe dapprima le foglie superiori e viene in parte assorbita dal sistema fotosintetico, in parte riflessa, in parte trasferita agli strati inferiori, dove il fenomeno si ripete. Sotto il fogliame la luce è ridotta e passando agli strati inferiori l’intensità tende sempre più a diminuire: in una foresta densa di ambiente tropicale il 97-99 per cento dell’energia viene assorbita e soltanto l’ 1-3 per cento arriva a livello del suolo. Si ha una sorta di cascata, che funziona da generale regolatore dei rapporti strutturali e funzionali all’interno della vegetazione. Le specie vengono selezionate sulla base della loro forma e dell’adattamento alla radiazione luminosa: le erbe del sottobosco sono specie che hanno un optimum fotosintetico a basse intensità luminose; quanto agli alberi, il discorso è più complesso, perché le foglie superiori sono esposte all’insolazione diretta, mentre quelle inferiori sono in penombra; sembra anche che si abbia un differente optimum fotosintetico in relazione all’età dell’albero, quindi le condizioni di luce condizionano anche la prima fase di sviluppo delle giovani plantule. La cascata luminosa sembra regolare non soltanto la densità del fogliame, ma anche la distribuzione degli individui arborei riferibili alle varie specie, e quindi la composizione specifica della foresta.Crescita ad anello. Un fenomeno appariscente di auto-organizzazione della vegetazione nello spazio si può osservare in certe graminacee. Nelle zolle di Sesleria apennina, una graminacea diffusa sulle zone più elevate dell’Appennino calcareo, si formano dapprima individui di pochi cm di diametro. Essi poi si allargano formando una zolla emisferica, che lentamente cresce espandendosi sui lati in direzione centrifuga; quando la zolla ha raggiunto il diametro di 50 centimetri circa, la parte iniziale comincia a seccarsi, così al centro progressivamente si forma una lacuna. La crescita centrifuga continua e la pianta viene ad assumere una forma regolare ad anello. Il diametro dell’anello continua ad aumentare e la pianta, che deriva da un singolo individuo iniziale, e probabilmente dalla germinazione di un unico seme o cariosside, può raggiungere il diametro di quasi un metro. A questo punto l’anello comincia a frammentarsi in zolle più o meno separate; intanto l’espansione continua e in seguito l’anello si dissolve in una serie di zolle di 1-3 decimetri, a distribuzione sempre più irregolare. Però ciascuna delle piccole zolle che vengono così generate può cominciare a espandersi centrifugalmente e il ciclo ricomincia. Si tratta di un processo lentissimo ed è difficile valutarne i tempi, però dai dati non definitivi in nostro possesso sembra che la crescita compatta possa durare da 25 a 50 anni, poi comincia il disfacimento delle foglie centrali. La crescita ad anello può continuare fino a forse 100 anni, e la caratteristica disposizione è ancora riconoscibile su zolle ormai separate. Analoga è la crescita delle graminacee del genere Triodia, che vivono nel deserto australiano. Il vantaggio che la pianta può ricavare da questo tipo di crescita consiste probabilmente in un migliore adattamento rispetto all’azione del vento, ma questo non è dimostrato: tuttavia è evidente che si tratta di un meccanismo che ha superato il filtro della selezione naturale e che inserisce un principio di ordine anche nella disposizione delle piante nello spazio.

Il fattore tempo

Fioriture precoci nella faggeta. Un fatto ben noto ai naturalisti è la presenza di specie erbacee che vivono nella foresta caducifoglia e sono in grado di fiorire in un periodo estremamente precoce, cioè già alla fine dell’inverno, quando gli alberi non hanno ancora prodotto le foglie. Nella faggeta il fenomeno, particolarmente evidente, è stato descritto da Pier Luigi Nimis. Tutte le specie a fioritura precoce possiedono un bulbo sotterraneo, che immagazzina amido dall’anno precedente. Grazie a queste riserve, le piante, già alla fine dell’inverno, producono rapidamente le foglie e attivano la fotosintesi. Di conseguenza, possono approfittare del periodo nel quale la radiazione luminosa arriva nel sottobosco con la massima intensità, in quanto le foglie degli alberi non si sono ancora sviluppate, per accumulare nuove riserve, che verranno depositate nei bulbi e conservate fino all’anno successivo. Queste piante non sfruttano solo l’effetto luminoso ma anche quello termico, in grado di attivare la vita degli insetti, che in condizioni di bassa temperatura si trovano in una sorta di ibernazione: risvegliati dal calore dei raggi solari, questi possono infatti svolgere il loro compito di impollinatori. Dunque, grazie a una struttura anatomica (il bulbo) queste specie possono avere un vantaggio selettivo sia nella produzione di biomassa che nei processi riproduttivi.

Relazioni biogeografiche

Ogni specie – vegetale o animale – è distribuita su una determinata area geografica: a volte piccola o piccolissima, come il Monte Baldo vicino al Lago di Garda e l’Isola di Marittimo nelle Egadi, oppure molto vasta, come l’Eurasia o l’intera fascia intertropicale. In base alla loro distribuzione le specie possono venire raggruppate in classi (corotipi), e l’incidenza di queste classi tende a variare in relazione ai fattori dell’ambiente. Non si tratta di una relazione semplice con il clima, del tipo: specie settentrionali dove fa freddo – specie meridionali nelle zone calde, ma di rapporti complessi, che dipendono largamente anche da vicende storiche e dalle relazioni tra i vari gruppi vegetali. Sulle Alpi si nota una stratificazione abbastanza regolare di tre flore con caratteri differenti, e cioè: nella fascia basale fino a 1000 metri circa si ha una flora di tipo eurasiatico, al di sopra di questa e fino al limite degli alberi (2200 metri) la flora boreale e nella fascia più elevata la flora alpina vera e propria. La flora eurasiatica è quella del bosco caducifoglio, con querce, tiglio, aceri, castagno e faggio; la flora boreale costituisce la foresta di conifere: pini, abeti, larice ed ericacee come i mirtilli e i rododendri; nella flora alpina si trova il componente endemico, la cui incidenza è massima nella zona più elevata, e la flora autoctona delle alte montagne sudeuropee e mediterranee. Questa ripartizione è probabilmente un effetto delle glaciazioni. Prima dei periodi freddi, la flora eurasiatica aveva la prevalenza; durante le glaciazioni si è avuta una intensa evoluzione in situ, che ha portato alla differenziazione della flora autoctona, e più o meno contemporaneamente l’immigrazione di specie boreali provenienti dalla zona artica. Anche qui si può riconoscere un processo di auto-organizzazione, che porta a una distribuzione non casuale dei vegetali.

L’azione del fuoco

Noi in generale consideriamo gli incendi come avvenimenti disastrosi, che devastano l’ambiente e spesso mettono a rischio la vita dell’uomo, per lo più in conseguenza di azioni colpose o criminali. In realtà, l’incendio è un fattore naturale della biosfera, almeno per quanto riguarda gli ecosistemi aridi e semiaridi, incluso l’ecosistema mediterraneo. E’ erroneo ritenere che le combustioni vengano sempre causate dall’uomo: si hanno prove sicure di incendi dovuti a cause del tutto naturali, come materiali incandescenti derivati da attività vulcaniche, scariche elettriche durante i temporali, autocombustione dovuta a fermentazioni organiche e il caso di particolari materiali che agiscono come una lente provocando la convergenza dei raggi solari. La combustione ha effetti positivi nell’economia dell’ecosistema: libera lo spazio per la crescita di nuovi individui, accelera il riciclo dei nutrienti che passano nelle ceneri in forma facilmente solubile e accessibile ai vegetali, libera anidride carbonica che può venire utilizzata per la fotosintesi. Corrispondentemente, le piante in molti casi hanno sviluppato adattamenti per favorire l’innesco di incendi:- nella vegetazione mediterranea si accentua l’incidenza di specie che accumulano terpeni, sostanze volatili e resine, che producono resti altamente infiammabili (es.: Labiatae, Cistus salvifolius, Juniperus, Pinus);- nella foresta boreale a conifere (taiga) le specie resinose sono soprattutto Pinus, Picea, Abies, Larix;- specie con semi che germinano soltanto dopo uno stimolo termico (nel Mediterraneo soprattutto le Cistacee e Geraniacee, in Australia moltissimi esempi);- specie con frutti a corteccia indurita, che si frammenta per effetto del calore lasciando fuoruscire il seme (nella flora australiana molti esempi: Banksia, Hakea, Grevillea; da noi Pinus);- semi con germinazione stimolata da sostanze contenute nel fumo sprigionato durante le combustioni (molti esempi nella flora sudafricana e australiana). Gli ecosistemi nei quali si ha la massiccia presenza di specie con adattamenti di questo tipo, come la macchia mediterranea e la taiga, vengono indicati come “fire prone ecosystems” per la loro stretta dipendenza dal ripetersi dell’incendio; in queste condizioni si stabiliscono anche regolari cicli forestali, come verrà illustrato negli esempi seguenti.Cicli forestali. La vegetazione forestale tende a organizzarsi secondo modelli ciclici, che ne garantiscono la permanenza in condizione stazionaria per un tempo praticamente illimitato. Tali cicli sono caratterizzati dalla continua produzione di materia organica a opera della fotosintesi e dalle conseguenti trasformazioni del suolo e del microclima, che portano a scadenze temporali ben definite. In linea generale, si ha alternanza di auto-organizzazione e catastrofi, cioè un lungo processo di crescita e sviluppo, seguito da un crollo improvviso, che riporta la vegetazione a una condizione iniziale, dopo di che riprende la crescita, fino a una nuova catastrofe e così via. Il processo di auto-organizzazione è molto lento e in generale ha la durata di secoli, e per questo viene difficilmente percepito. In dipendenza di esso, la foresta raggiunge una struttura via via più ordinata, che si rende evidente nella regolare stratificazione della materia organica (conseguenza della “cascata luminosa”), il tamponamento microclimatico e l’accumulo di materia organica nel suolo. La catastrofe può essere provocata dall’incendio nei fire prone ecosystems, dallo schianto degli alberi vetusti nei climi temperati oppure dai tifoni in ambiente tropicale.Nelle foreste di eucalipti dell’Australia Occidentale si hanno esempi ben documentati di cicli in rapporto all’incendio. Si tenga presente che in questi eucalipti l’incendio è necessario per innescare la germinazione dei semi. In ambiente con piovosità moderata (700-900 millimetri di precipitazioni annue) si ha la foresta di Eucalyptus marginata: qui gli incendi sono molto frequenti (in media ogni 20-25 anni), ripuliscono periodicamente il sottobosco e avviano ondate di rinnovazione dell’eucalipto. In conseguenza, la foresta ha una struttura disetanea, con la mescolanza di individui di tutte le classi di età, i più alti dei quali non superano in generale i 30-45 metri di altezza. In ambiente più umido (1000-1250 millimetri di precipitazioni), si ha la foresta di Eucalyptus diversicolor. Qui l’incendio è un evento raro, a causa di piogge e di nebbie frequenti, e la foresta può svilupparsi per secoli, raggiungendo in 200-300 anni dimensioni imponenti con fusti di 60-75 metri e oltre. Però, anche in questo caso prima o poi si scatena l’incendio, che distrugge completamente gli individui arborei, ormai stramaturi. Dopo l’incendio si ha una densissima germinazione e la formazione di nuove plantule, che in pochi anni raggiungono dimensioni arboree e ricostituiscono il consorzio forestale. In questo caso, la foresta ha struttura coetanea: tutti gli eucalipti sono germinati nello stesso anno e pertanto hanno la medesima età. Analoghi cicli in rapporto all’incendio si hanno anche nella taiga, la foresta di conifere della Siberia, del Canada e della Scandinavia.

Significato ecologico dell’impollinazione

Il processo di riproduzione sessuata negli animali in generale viene attuato attraverso il contatto tra individui dei due sessi e la fecondazione; nelle piante, che non sono dotate di movimento, esso si esplica attraverso particolari adattamenti per trasferire il polline dall’organo maschile (stame) a quello femminile (pistillo). Questo avviene nei vegetali più primitivi mediante il vento (impollinazione anemofila), però la probabilità che il polline raggiunga effettivamente l’organo femminile di una pianta della stessa specie è molto bassa. Le anemofile, quindi, producono grandi quantità di polline, ma ciò costituisce un enorme spreco per la pianta. Gli alberi dei climi temperati (Pini, Abeti, Larici, Querce, Faggio ecc.) sono per lo più dipendenti dall’impollinazione a opera del vento. Nelle Angiosperme, e particolarmente in quelle dei climi tropicali, si sviluppa un sistema alternativo: l’impollinazione entomofila. L’animale, generalmente un insetto, viene attirato nel fiore, dove può raccogliere sostanze nutritive (nettare); durante la raccolta l’insetto s’impolvera di polline, che verrà poi trasferito sul fiore successivo e potrà attuare la fecondazione. Il processo è molto efficiente e permette alle piante un grande risparmio nella produzione di polline; esso però è vantaggioso anche per l’insetto, che in questo modo si procura il necessario alimento. E’ probabilmente grazie a questo vantaggio reciproco che i due gruppi coinvolti hanno dato luogo a un imponente fenomeno di coevoluzione, e oggi Angiosperme (300.000 specie) e Insetti (5-10 milioni di specie) sono i phyla maggiormente diversificati, rispettivamente tra animali e vegetali. L’impollinazione a opera di animali determina un imponente sviluppo di adattamenti morfologici nei vegetali (e ovviamente anche negli animali, ma di questo non ci si può occupare in questa sede). Compare la funzione vessillare del fiore: la forma, l’odore e la colorazione di questo organo sono un mezzo essenziale per il riconoscimento da parte degli animali. I nettari in molti casi (per esempio nella Salvia) vengono sviluppati in posizione tale che l’insetto deve necessariamente venire in contatto con le antere che liberano il polline, e successivamente con lo stimma sul quale esso va a depositarsi. La massima specializzazione si raggiunge nelle Orchidee. I tessuti fiorali di queste specie emettono nell’atmosfera sostanze che corrispondono ai feromoni dell’impollinatore. Sotto lo stimolo del richiamo sessuale, l’insetto maschio (in generale si tratta di ditteri) si avvicina al fiore, la cui forma imita l’addome della femmina, e compie una pseudo-copulazione permettendo così al polline rimasto attaccato al suo corpo nel corso di precedenti esplorazioni di fiori di arrivare a destinazione. L’aspetto del fiore è in gran parte un effetto di questo processo di auto-organizzazione, che ha raggiunto la sua massima espressione nelle flore tropicali. Anche la vegetazione, nel suo complesso, può venire interpretata in base all’evoluzione degli adattamenti per l’impollinazione. Il livello evolutivo più elevato si raggiunge nelle flore tropicali e subtropicali. Nell’ecosistema di tipo mediterraneo dell’Australia parecchie famiglie, soprattutto le onnipresenti Proteacee, hanno sviluppato adattamenti per l’impollinazione a opera di piccoli marsupiali notturni e di uccelli; nell’America tropicale l’impollinazione è invece spesso effettuata dai colibri. In questi casi si sviluppano adattamenti secondari importanti: i vertebrati impollinatori hanno dimensioni ben superiori a quelle degli insetti, quindi si sviluppano fiori molto grandi, spesso riuniti in infiorescenze; per sostenere il peso degli impollinatori gli organi fiorali sono portati da fusti legnosi (mentre nella nostra flora il fiore è portato da uno stelo sottile e delicato). Nell’ambiente mediterraneo e temperato la vegetazione climax (lecceta, querceto misto, faggeta) mostra una netta prevalenza di specie anemofile, mentre quelle entomofile si hanno nella macchia, nei pascoli alpini, nelle praterie, cioè nei tipi di vegetazione secondaria o comunque marginale: la selezione favorevole alle entomofile risulta spesso legata a un’azione di disturbo, per esempio l’incendio in ambiente mediterraneo oppure il pascolo di erbivori in montagna.Un ulteriore esempio di rapporto mutualistico che si è sviluppato nell’ecosistema è dato dalla micorriza, cioè la simbiosi tra vegetali superiori, funghi e batteri eterotrofi. Si tratta di un fenomeno molto diffuso, che riguarda quasi tutte le specie arboree e arbustive e un gran numero di erbacee. In condizioni di simbiosi, il fungo viene a inserirsi sull’apparato radicale della pianta ospite, assumendone gran parte delle funzioni. E’ abbastanza verosimile che in queste condizioni il fungo possa avere una azione diretta nel determinare la struttura della vegetazione erbacea, arbustiva ed arborea. L’interazione tra vegetazione e suolo è dunque strettissima, e molti fenomeni possono venire interpretati solo nel quadro di un concetto di “continuum suolo-vegetazione”.

Un ordine e tre dimensioni

La forma più evidente nella quale la vegetazione si auto-organizza nello spazio è la tendenza verso la costituzione di un sistema pluristratificato. Questo si può interpretare come una conseguenza del fatto che la funzione specifica e caratterizzante della vegetazione è la fotosintesi, che, come si è già detto, è un fenomeno che dipende direttamente dalla superficie. Possiamo immaginare un organismo primordiale di forma laminare, come una sottile pellicola, esposto alla luce, che compie fotosintesi. In effetti, probabilmente all’inizio era proprio così: le prime evidenze paleontologiche di organismi fotosintetici (nei depositi di Pilbara in Australia Occidentale) risalgono a 3,9 miliardi di anni B.P. (Before Present = prima dell’epoca presente), e riguardano procarioti monocellulari che formavano un sottile film di materia vivente che rivestiva la roccia umida. La vita si è sviluppata in ambiente acquatico per un tempo lunghissimo e solo a 0,5 B.P. compaiono i primi vegetali terrestri, che hanno un aspetto paragonabile a quello delle attuali erbe palustri. Nelle successive fasi geologiche si hanno organismi di dimensioni via via maggiori e nel Carbonifero, a 0,3 B.P. (300 milioni di anni prima dell’epoca presente) compaiono vegetali con l’aspetto di veri e propri alberi, alti diecine di metri. Oggi gli alberi sono diffusi su tutte le terre emerse del pianeta, con l’eccezione delle aree polari e di quelle desertiche. Gli alberi si sviluppano in altezza grazie alla crescita del fusto e dei rami, che non partecipano direttamente all’attività fotosintetica, ma ne costituiscono la premessa essenziale, in quanto assicurano il trasporto dell’acqua e dei nutrienti alla foglia. Tuttavia, l’attività fotosintetica rimane concentrata nella foglia, un organo di forma appiattita, che in generale contiene un solo strato di cellule in grado di effettuare la fotosintesi: lo strato a palizzata; anche nei vegetali più evoluti, rimane dunque la struttura laminare.L’auto-organizzazione si può rilevare come progressivo aumento della complicazione di strutture spaziali. Il sistema fotosintetico è a due dimensioni: questa era nella notte dei tempi la struttura del film monocellulare di procarioti fotosintetici, che rimane conservata anche nello strato di cellule a palizzata della foglia. Tuttavia la vegetazione arborescente tende a svilupparsi in una terza dimensione: quella dell’altezza. Il film monocellulare dei procarioti può coprire soltanto la superficie esistente, al massimo il 100% di questa (nella realtà però molto meno, perché soltanto poche superfici risultano compatibili con le esigenze del delicato sistema vivente); invece attraverso il sistema rami-foglie è possibile arrivare fino a una copertura di quattro-cinque strati sovrapposti e l’efficienza del sistema aumenta. Allora, è possibile considerare un bosco come un oggetto tridimensionale? Sì, almeno in teoria, però le forme tridimensionali che ci offre la geometria dei solidi sono del tutto inadeguate: di un bosco possiamo misurare lunghezza, larghezza e altezza, ma con questo si definisce un parallelepipedo, che non ci dà una chiara rappresentazione della complicazione di strati e della giustapposizione delle foglie in un bosco. Sembra più utile interpretare queste come strutture frattali intermedie tra la seconda e terza dimensione, e che in un singolo bosco si ripetono a più livelli: muschi – erbe – arbusti – alberi. Questi ultimi nella foresta tropicale, il più complesso ecosistema del pianeta, si possono disporre su altri tre-quattro strati: bassi alberi d’ombra, palme, alberi dello strato superiore e super-alberi come le Dipterocarpacee e, in altri ambienti, eucalipti e sequoia.

Conclusione

“L’intelligenza dei fiori” è il titolo di un libro ormai classico, nel quale Maurice Maeterlinck descriveva una serie di adattamenti, che permettono ai vegetali di interagire con gli insetti e di regolare il proprio comportamento rispetto al tempo, quasi come se fossero in grado di fare scelte razionali. Questa formula rimane un’interpretazione poetica, perché noi sappiamo che i vegetali non possiedono cellule con attività paragonabili a quelle del tessuto nervoso, che rimane proprio degli animali, e quindi non c’è la possibilità di processi cognitivi. Tuttavia, gli esempi che sono stati qui discussi, dimostrano che la capacità di auto-organizzazione non è esclusiva degli animali, ma si può riconoscere come una caratteristica intrinseca del vivente. Si ha auto-organizzazione nel microcosmo, cioè a livello degli atomi e molecole, e nel macrocosmo, al livello delle galassie. Tra questi due estremi, si può riconoscere un livello di mesocosmo, nel quale si esplicano i fenomeni auto-organizzativi della biosfera.

Dossier, novembre 2002 © Galileo

RESTA IN ORBITA

Articoli recenti