Colonizzare Marte? Passando dalle fantasie cinematografiche alle più solide realtà della scienza, l’ipotesi di far visita al pianeta rosso si fa ogni anno più concreta. Nel marzo scorso, il Congresso americano ha staccato un assegno sostanzioso – oltre 19 miliardi di dollari per il 2017 – all’agenzia spaziale americana, la NASA, anche per studiare la strada verso Marte. Che però è ancora costellata di ostacoli. Uno fra tutti: ammesso che sia possibile raggiungere Marte in tempi utili e abitarlo sfidando le condizioni avverse, cosa mangerebbero i coloni una volta giunti a destinazione?
Da scartare l’idea di traghettare le provviste dalla Terra per via dei costi esorbitanti – circa un miliardo di dollari all’anno per ciascun membro della spedizione, e questo solo per gli alimenti. La soluzione allora potrebbe essere quella di impiantare colture in loco, come immaginato nel film “The Martian” di Ridley Scott, in cui il personaggio interpretato da Matt Damon riesce a sopravvivere mettendo in piedi una coltivazione di patate. Finzione cinematografica, certamente: ma i risultati preliminari del progetto Potatoes on Mars dimostrano che si può fare.
Potatoes on Mars è un articolato esperimento scientifico che coinvolge l’Ames Research Center della NASA e l’International Potato Center, prestigiosa istituzione peruviana che dal 1971 si occupa di ricerca e sviluppo in agricoltura. Alla base dell’analisi, i cui risultati sono stati recentemente resi noti dalla NASA, c’è l’osservazione che in Perù i tuberi crescono persino nell’ecosistema arido del deserto di Pampas de la Joya, dove il suolo vulcanico e riarso è molto simile a quello di Marte e ben si presta ad essere utilizzato come terreno di prova. Perché puntare sul tubero? Perché è dotato di grande resistenza a condizioni estreme e molto ricco di nutrienti (vitamina C, zinco e ferro): dunque, inevitabilmente, al centro dell’attenzione degli esperti del settore biorigenerativo e candidato avere un ruolo in una futura colonizzazione di Marte. L’esperimento condurrà a ricadute positive anche qui da noi, attraverso lo sviluppo di tecnologie finalizzate a migliorare le rese dell’agricoltura terrestre in zone particolarmente inospitali oppure che abbiano subito devastazioni o dissesti idrogeologici.
In attesa dell’orto marziano, a due passi da casa sono sbocciati da tempo i fiori: annaffiate con cura dagli astronauti Scott Kelly e Tim Peack, nel 2016 sulla Stazione Spaziale, all’interno della facility Veggie, sono cresciute le zinnie. Nella stessa serra cosmica, è stata coltivata (e mangiata, dicono sappia di rucola) anche la lattuga rossa romana. A breve arriveranno addirittura i pomodori.
Il 18 aprile 2017 ha poi fatto il suo debutto in orbita anche un nuovo sistema di coltivazione quasi del tutto autosufficiente, l’Advanced Plant Habitat Facility. L’esperimento, lanciato a bordo del volo cargo Cygnus, contiene più di 180 sensori, in grado di fornire ai ricercatori informazioni in tempo reale su diversi parametri vitali per le piante, come temperatura, ossigenazione e livelli di umidità. Il primo ad essere coltivato nel nuovo habitat vegetale della ISS sarà l’Arabidopsis, organismo modello negli esperimenti di genetica e biologia molecolare delle piante.
Ma l’agricoltura spaziale produce benefici anche per la vita sulla Terra, attraverso la messa a punto di nuove tecnologie. Ne sono un esempio l’illuminazione LED per l’agricoltura verticale o gli approcci idroponici per le colture sotterranee, in grado di ottimizzare (o addirittura di consentire laddove era impossibile prima) la resa in ambienti estremi. Le sfide insomma sono ancora molte, ma puntare sull’agricoltura resta una delle chiavi d’accesso al Pianeta Rosso.