Sono, proverbialmente, il polmone verde della Terra. Che assorbe anidride carbonica dall’atmosfera e vi rilascia ossigeno grazie al processo di fotosintesi clorofilliana. Ma, ultimamente, pare che le piante stiano respirando un po’ troppo. E, nonostante possa sembrare il contrario, non è una buona notizia: stando a uno studio appena pubblicato su Science da un’équipe di ricercatori della European Commission Joint Research Centre (Jrc) di Ispra, vicino Varese, infatti, l’area fogliare (una grandezza che misura la quantità di foglie per unità di superficie del suolo) è significativamente aumentata a livello globale negli ultimi trent’anni, un fenomeno che ha progressivamente contribuito al surriscaldamento delle aree boreali e al raffreddamento delle aree semiaride. E il cui impatto, quindi, dovrebbe essere tenuto in debita considerazione da politici e istituzioni chiamati a scegliere le strade più opportune da intraprendere per salvaguardare la salute del pianeta.
Arriviamo così al punto centrale del lavoro dei ricercatori, relativo alle conseguenze dell’aumento della vegetazione. “L’aumento generalizzato del leaf area index”, racconta Forzieri, “ha indotto risposte contrastanti nei climi regionali: in alcune zone si è registrato un effetto di riscaldamento, in altre l’effetto opposto”. In linea di principio, naturalmente, non è semplice capire se riscaldamento e raffreddamento siano effettivamente dovuti all’aumento del fogliame o vi abbiano contribuito anche altri fattori: per capirlo, gli scienziati si sono serviti di un modello statistico che ha consentito loro di scorporare i contributi dovuti a fattori diversi (tra cui la radiazione solare, le precipitazioni e, per l’appunto, l’aumento della vegetazione) e che ha confermato la significatività del contributo della maggiore area fogliare. “In particolare, abbiamo notato un aumento della temperatura di quasi un grado e mezzo negli ultimi trent’anni ascrivibile all’aumento del leaf area index nelle zone boreali, quelle più fredde”. La ragione sta nel fatto che, con un maggior numero di foglie, il suolo diventa più scuro (tecnicamente, ne diminuisce l’albedo, ovvero la quantità di luce riflessa) e tende ad assorbire più energia solare, il che porta per l’appunto a un surriscaldamento. “Nelle zone semiaride”, continua l’esperto, “è successo invece il fenomeno contrario: si è osservato un raffreddamento di circa un grado e mezzo in trent’anni, principalmente dovuto alla cosiddetta evapotraspirazione, il meccanismo con cui le foglie dissipano il calore nell’aria rilasciandovi acqua”.
Per di più, gli scienziati hanno osservato che tali effetti sono amplificati fino a cinque volte in condizioni estreme, cioè durante anni di particolare siccità, calura o quantità di precipitazioni. “Attualmente, i negoziati sul clima non tengono conto di tali aspetti biofisici di risposta del suolo”, conclude Forzieri. “I nostri risultati mostrano invece che si tratta di effetti importanti e significativi e quindi andrebbero integrati nella discussione e nella stesura di linee guida per il futuro”.
Via: Wired.it