A cosa serve un living will? In questi ultimi anni se n’è parlato spesso, sia in relazione alle proposte di legge in merito, sia a quei casi che hanno sollevato discussioni animate: Piergiorgio Welby, Eluana Englaro, Giovanni Nuvoli, Z. E tanti altri ancora di cui abbiamo dimenticato il volto o il nome. L’aumento dell’aspettativa di vita e il perfezionarsi delle tecnologie mediche a nostra disposizione sollevano dilemmi che fino a qualche tempo fa erano relegati alla nostra immaginazione o alla fantascienza. È giusto mantenere in vita qualcuno che ha subìto la distruzione totale del sistema nervoso centrale? È moralmente ammissibile rianimare o nutrire qualcuno artificialmente? Possiamo chiedere di essere scollegati da un ventilatore meccanico? Queste domande in passato non esistevano perché non esisteva la possibilità tecnica di far sopravvivere un individuo in alcune condizioni cliniche.
Ogni volta che qualcosa diventa realizzabile seguono le domande sui se, sui come e sui perché. D’altra parte è dissennato ipotizzare che il solo fatto che uno strumento sia alla nostra portata ci obblighi a farne uso, e renda il suo uso sempre giusto e buono (o sempre sbagliato e cattivo).
A volte si delineano scenari paradossali e ripugnanti, e il vantaggio di avere più possibilità può essere trasformato in una trappola. Credo che questo accada quando dimentichiamo che gli strumenti sono tali, cioè non buoni o cattivi intrinsecamente. Il loro profilo morale dipenderà dall’uso che ne faremo. All’inizio di gennaio 2012 Vinton G. Cerf scrive: «La tecnologia è uno strumento per promuovere i diritti, non un diritto in sé […]. È un errore collocare una qualsiasi specifica tecnologia in un dominio tanto importante, perché con il tempo finiremo per dare valore alle cose sbagliate. Per esempio, un tempo se non avevi un cavallo era dura sopravvivere. Ma il diritto importante in quel caso era il diritto di sopravvivere, non il diritto di avere un cavallo. Oggi, se mi fosse garantito il diritto di avere un cavallo, non saprei proprio cosa farne».
Cerf si riferisce all’internet e non ai ventilatori meccanici o alle tecniche rianimatorie, ma il suo commento può essere ben applicato al dominio medico, anzi a ogni tecnologia e a ogni strumento. Se dovessimo declinare il suo argomento potremmo dire: il ventilatore meccanico è uno strumento, perciò non un diritto di per sé – e tanto meno un dovere – ma un mezzo per aggiungere o ripristinare un diritto, che è quello alla salute o alla migliore condizione possibile, a volte alla sopravvivenza.
Le tecnologie mediche non sono che mezzi, e tali dovrebbero essere sempre considerate. Il loro uso dipende dalla volontà di ognuno di noi. Trasformarle in un obbligo è insensato e ingiusto, perché ci renderebbe meno liberi. Che paradosso! Uno strumento che può farci vivere meglio e più a lungo diventa un’insopportabile condanna. Per questo motivo la domanda centrale sul living will ha a che fare con la nostra libertà. Il dibattito italiano ha spesso confuso e maltrattato alcune parole, lasciando che un concetto semplice fosse schiacciato e reso quasi irriconoscibile: l’autodeterminazione.
Quando affermo che è semplice intendo dire che non dovrebbe essere particolarmente complicato 5 capire e rispondere alla domanda che precede ogni discussione sul fine vita (e su molti altri argomenti): siamo liberi di decidere riguardo alla nostra esistenza, in particolare per quel che riguarda la nostra salute? Abbiamo due possibilità: pensare che ognuno di noi dovrebbe godere di questa libertà oppure pensare che siamo troppo irresponsabili o troppo distratti per esercitare il diritto di scegliere.
Non appena cominciamo a discuterne emergono i profili dei conflitti: l’autonomia contrasta con l’idea paternalista che non siamo capaci di prenderci cura di noi stessi; l’idea di poter disporre del nostro corpo contrasta con la convinzione dell’indisponibilità della vita.
Tra le risposte liberali e quelle illiberali esiste una profonda asimmetria. La libertà garantisce anche quanti non vogliono compiere un’azione permessa dalla legge: la possibilità di divorziare non obbliga nessuno a divorziare. E questo è un incontrovertibile vantaggio rispetto allo scenario opposto: voglio divorziare e siccome tu credi che sia immorale, io non dovrei avere la libertà di divorziare. La credenza è la tua, l’obbligo è per me. La libertà offre anche un altro vantaggio: quello di rinunciarvi.
Nel 1969 Luis Kutner, avvocato dell’Illinois, propone per la prima volta una forma di direttiva anticipata che diventerà presto molto familiare: è il living will. L’idea gli era venuta dalla conoscenza delle leggi esistenti che permettevano agli individui di decidere dei propri beni dopo la morte. Se posso disporre dei miei oggetti e delle mie proprietà, a maggior ragione dovrei poter disporre della mia salute. Proprio come il testamento patrimoniale permetteva di estendere la voce di chi non poteva più parlare (perché era morto), questo testamento avrebbe dovuto permettere di esprimersi a chi non poteva più farlo (perché era così malato da non poterlo fare). Siccome la mia volontà avrebbe avuto valore quando io sarei stata ancora viva, è stato chiamato «living».
Alla sua morte Wolfgang Saxon ricorda: «La brutta esperienza della morte lenta e dolorosa di un amico, in seguito a una brutale rapina, spinse Mr. Kutner a scrivere il suo primo “living will”, circa sessant’anni fa. Il pensiero che stava dietro a quel documento era di permettere ai pazienti di indicare in quale condizione i macchinari di sostegno vitale dovessero essere interrotti, quando ormai la situazione era senza speranza. Con il sostegno della Society for the Right to Die di New York, queste volontà sono legalmente applicabili in molti stati, e a Mr. Kutner va il credito del concetto».7
Inizierò con la descrizione del contesto normativo e costituzionale per sostenere che il testamento biologico altro non è – o non dovrebbe essere – che una conseguenza abbastanza diretta e automatica di tale contesto, un’estensione temporale del consenso informato.
Prima di passare ai principali aspetti che ogni living will dovrebbe considerare, come la nutrizione e l’idratazione artificiali o il suo carattere vincolante, mi soffermerò sul paternalismo e sulla distinzione tra fatti e valori.
Il cosiddetto «accanimento terapeutico» merita un approfondimento perché è onnipresente nei dibattiti sulle direttive anticipate, ma l’espressione andrebbe eliminata. Veicola ambiguità semantiche e inutili ossimori: come può qualcosa di tanto sgradevole come un accanimento essere terapeutico? Proverò a rispondere a questa domanda e sosterrò che sarebbe più corretto, da un lato, usare un termine tecnico per descrivere l’inutilità medica di un trattamento (futility) e, dall’altro, sottolineare l’aspetto soggettivo rilevante: la volontà del diretto interessato.
Qualsiasi trattamento, anche il più utile sul fronte clinico, può essere indesiderato. Tutti i proclami fatti intorno al «no all’accanimento terapeutico!» sono dunque poco sensati. Chi avrebbe il coraggio di dirsi favorevole all’accanimento terapeutico? Nessuno. Molti, però, sono favorevoli alla restrizione dell’autodeterminazione, e scelgono strade secondarie e tortuose perché la via esplicita sarebbe troppo impopolare.
La discussione sulla morte cerebrale, seppure non direttamente connessa al testamento biologico, è abbastanza rilevante e offre alcuni spunti di riflessione, così come quella sul dolore e sulla sedazione totale, pratica moralmente e giuridicamente ammessa. La ragione alla base della mia scelta di includere questi argomenti sta anche nel voler ricordare che la pretesa di disegnare confini netti è ingenua, quando non implica conseguenze disastrose, lesive della nostra volontà e del tutto irrazionali. Mi soffermerò, verso la conclusione, sull’amministrazione di sostegno: una legge che può servire da esempio per il testamento biologico e che ci permette di completare il quadro normativo da cui sono partita.
Nel corso della discussione citerò alcuni casi esemplari e analizzerò alcune pessime argomentazioni, usate per confondere le acque e per negare alle singole persone la possibilità di scegliere: il penultimo capitolo sarà dedicato alle migliori fallacie argomentative.
Che si debba ancora discutere di autodeterminazione è quasi surreale. Che si debba combattere per mantenere i confini tracciati a difesa della possibilità di scegliere quello che preferiamo è ridicolo. La maggior parte dei dibattiti e dei disegni di legge sarebbe annientata dal banale riconoscimento di un principio abbastanza facile da capire: soltanto io posso decidere se e come curarmi e qualsiasi tentativo di aggirare o ridurre questa possibilità è un sopruso. Un’ingiustificabile e beghina intromissione.
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La versione integrale di questo testo, comprensiva delle note, è l’Introduzione al volume di Chiara Lalli Secondo le mie forze e il mio giudizio. Chi decide sul fine vita: Morire nel mondo contemporaneo (il Saggiatore., Milano 2014) in libreria il 15 maggio.
L’accanimento terapeutico è indubbiamente una bufala!
Come correttamente scrive Chiara Lalli nessuno è a favore dell’accanimento terapeutico.
Se però tutti concordano al 100% sull’inopportunità dell’accanimento terapeutico, contro chi si lancia strali?
Se però tutti concordano al 100% sull’inopportunità dell’accanimento terapeutico chi – tradendo sè stesso – effettua l’accanimento terapeutico?
In realtà, nessuno fa accanimento terapeutico.
In realtà, l’accanimento terapeutico mi ricorda il fantoccio del diavolo di certe antiche celebrazioni paesane semi pagane che simboleggiava il male e che raccoglieva sputi e sassate mentre era portato per le strade del paese fino a essere bruciato nella piazza centrale.
Tutti concordi al 100% contro il diavolo, così come tutti oggi sono concordi al 100% contro l’accanimento terapeutico.
Peccato che il diavolo non esiste e che non esiste neppure l’accanimento terapeutico.
Cordialità
Aristarco.