di Abdou Diouf
“La razza bianca rischia di sparire a causa dell’immigrazione”. Lo ha dichiarato, lo scorso mese, il rappresentante leghista Attilio Fontana, candidato governatore alla Regione Lombardia per la coalizione di centrodestra. Parole forti, che hanno riportato al centro della scena politica un termine quantomai improprio. Almeno dal punto di vista scientifico. “Chi usa la parola razza nel discorso quotidiano, o (peggio) in quello politico, è in genere totalmente disinteressato agli aspetti biologici del termine”, commenta per esempio il genetista Guido Barbujani, docente dell’Università degli Studi di Ferrara e autore del libro “Gli africani siamo noi”.
Razza è infatti un termine vago. Charles Darwin lo utilizzava indifferentemente, insieme a specie, per definire un gruppo di organismi che si possono distinguere da altri gruppi. Col tempo, però, le cose si sono precisate, e la parola specie ha assunto un significato più preciso, legato all’isolamento riproduttivo (in termini semplici, cavallo e asino sono specie diverse perché, incrociandosi, non generano figli fertili; due cavalli o due asini generano figli fertili, e quindi sono della stessa specie). Ma è proprio quando, nell’essere umano, si cerca di separare gruppi biologici diversi che il concetto non ha più valore. “Chiunque riesce a distinguere un senegalese da un coreano: siamo tutti diversi”, continua Barbujani. Se però viaggiamo dalla Corea al Senegal, scattando una foto ogni 100 chilometri al primo individuo che incontriamo, e poi chiediamo a persone diverse di raggruppare le immagini, ognuno formerà gruppi diversi, perché l’operazione implica un alto tasso di arbitrarietà. La diversità biologica umana, conclude il genetista, ricorda i colori su una tavolozza, che sfumano dall’uno all’altro senza soluzione di continuità.
A far notare questa difficoltà di raggruppare gli individui della specie umana, ricorda l’antropologo David Caramelli, docente dell’Università degli Studi di Firenze ed esperto di DNA antico, fu negli anni Sessanta l’antropologo americano Frank Livingstone. Fu lui a capire che suddividere gli individui per caratteristiche morfologiche era impossibile: che si considerasse il colore della pelle (esistevano asiatici dalla pelle color ebano), il colore dei capelli (c’erano aborigeni di pelle nera con i capelli biondi), oppure quello degli occhi (trovarono neri con gli occhi azzurri). “Nei vari cataloghi razziali proposti dal Settecento a oggi si sono usati criteri diversi, che andavano dalla statura alla forma del cranio, dal colore di pelle e occhi alla struttura dei capelli. Il risultato è che la stessa persona, a seconda del criterio, finisce in razze diverse, assieme a compagni diversi”, continua Caramelli.
Oggi, grazie allo studio dei genomi, abbiamo imparato che siamo molto simili l’uno all’altro: abbiamo in comune con chiunque il 99,9% del nostro DNA. E quell’1 per mille di differenze non ci permette di dividerci in gruppi distinti, perché, come aveva notato Livingstone, la variazione è incoerente attraverso i diversi geni, per cui si arriva a formare gruppi diversi a seconda delle regioni di DNA a cui si dà più peso. E se si dà lo stesso peso a tutte le regioni di DNA, l’umanità forma un groviglio compatto, in cui non è evidente nessuna linea di confine. Per questo, conclude l’antropologo, il termine razza non ha ragione di esistere.
Articolo prodotto in collaborazione con il Master SGP di Sapienza Università di Roma
Il concetto di razza è ancora meno semplice e definito da come viene descritto nell’articolo: infatti, Quando, nel 1735, Carl von Linné (1707-1778) propose il suo sistema di classificazione, tuttora adottato, le specie erano considerate come fisse ed immutabili. Si ritenevano appartenenti alla stessa specie, organismi che condividevano le stesse caratteristiche morfologiche. Questa prima definizione di specie è stata successivamente affinata, per confluire nella definizione data dagli estensori della nuova sintesi. Per questi il criterio di distinzione è l’isolamento riproduttivo. In pratica appartengono alla stessa specie gli individui che condividono lo stesso patrimonio genetico e, quindi, sono isolate riproduttivamente. Il concetto di isolamento riproduttivo, non sottende necessariamente la sterilità fra specie diverse, ma l’esistenza di meccanismi isolanti che rendono pressoché impossibile l’accoppiamento. Questa definizione appare già più soddisfacente della precedente, ma non del tutto. Il problema cruciale, ben messo in evidenza per i virus da Eigen e successivamente esteso da Dawkins a tutti i viventi, è che il concetto di specie è un artificio dei naturalisti. Se abbiamo a che fare con due organismi che rispondono alle definizioni più sopra esposte, lo studioso li ascriverà alla stessa specie, ma ciò non significa che effettivamente condividano interamente il loro patrimonio genetico. L’opera incessante della selezione naturale sulle mutazioni intraspecifiche e sulla variabilità presente nelle popolazioni, produrrà continuamente delle differenze che, per quanto impercettibili, differenzieranno maggiormente le diverse popolazioni che ascriviamo ad una stessa specie. Mentre queste variazioni saranno continuamente rimescolate fra i membri di una stessa popolazione, aumenteranno continuamente le differenze fra popolazioni isolate tra loro. Va aggiunto che gli studi genetici compiuti da Cavalli-Sforza sul cromosoma Y (ossia il cromosoma maschile, il cosiddetto DNA di Adamo) e da Svante-Peebo sul DNA mitocondriale (come noto, il mitocondrio proviene dalla cellula uovo, il cosiddetto DNA di Eva), hanno dimostrato al di la di ogni ragionevole dubbio che la variabilità genetica all’interno delle singole popolazioni è paragonabile se non maggiore di quella presente fra le popolazioni, ne deriva che il concetto di razza umana non ha validità biologica.
beh però come in tutte le classificazioni si possono stabilire dei caratteri tipo, come si dice anche nel testo “Chiunque riesce a distinguere un senegalese da un coreano”
Nell’articolo è anche riportato che asino e cavallo sono simili si possono accoppiare ma non sono fertili : Un/una senegalese e un/una coreana possono accoppiarsi ed avere figli. Come li classifichiamo? tra il gruppo senegalesi o il gruppo coreani? E tutti i figli di unioni tra bianchi e neri come possono essere classificati? Nel passato alcuni hanno provato a fare “ghetti” non facciamo lo stresso sbaglio. In realtà esiste solo la specie/razza umana .Il mio DNA è simile a quello di un senegalese e di un coreano funziona ed è organizzato esattamente nella stessa maniera e le differenze in sequenze che si possono riscontrare sono indipendenti dal colore della pelle.
Rispondo in particolare al Sig. Christian: attenzione a non confondere le classificazioni, che oltretutto per i viventi devono ricavarsi sui dati genetici, con categorie arbitrarie. Il concetto di Specie e quello di Razza non sono banali, ma sono in relazione con il livello di acquisizioni scientifiche raggiunte. Ritengo utile riportare il concetto di Specie, con tutta la sua complessità, da una mia monografia concernenete l’evoluzione biologica: “… dobbiamo necessariamente soffermarci sul concetto di specie, in quanto è impossibile avere una chiara visione della storia della vita, senza appropriarci di questo fondamentale concetto. Quando, nel 1735, Carl von Linné (1707-1778) propose il suo sistema di classificazione, tuttora adottato, le specie erano considerate come fisse ed immutabili. Si ritenevano appartenenti alla stessa specie, organismi che condividevano le stesse caratteristiche morfologiche. Questa prima definizione di specie è stata successivamente affinata, per confluire nella definizione data dagli estensori della nuova sintesi. Per questi il criterio di distinzione è l’isolamento riproduttivo. In pratica appartengono alla stessa specie gli individui che condividono lo stesso patrimonio genetico e, quindi, sono isolate riproduttivamente. Il concetto di isolamento riproduttivo, non sottende necessariamente la sterilità fra specie diverse, ma l’esistenza di meccanismi isolanti che rendono pressoché impossibile l’accoppiamento. Questa definizione appare già più soddisfacente della precedente, ma non del tutto. Il problema cruciale, ben messo in evidenza per i virus da Eigen e successivamente esteso da Dawkins a tutti i viventi, è che il concetto di specie è un artificio dei naturalisti. Se abbiamo a che fare con due organismi che rispondono alle definizioni più sopra esposte, lo studioso li ascriverà alla stessa specie, ma ciò non significa che effettivamente condividano interamente il loro patrimonio genetico. L’opera incessante della selezione naturale sulle mutazioni intraspecifiche e sulla variabilità presente nelle popolazioni, produrrà continuamente delle differenze che, per quanto impercettibili, differenzieranno maggiormente le diverse popolazioni che ascriviamo ad una stessa specie. Mentre queste variazioni saranno continuamente rimescolate fra i membri di una stessa popolazione, aumenteranno continuamente le differenze fra popolazioni isolate tra loro.” Riporto, per quanti possano essere interessati, un link dove è possibile scaricare un mio articolo dove discuto la non esistenza delle Razze umane: https://ilprogressonline.it/2017/04/strutturalismo-antropologia-homo-sapiens/
Prof. Ettore Ruberti
Nessuno mette in discussione l’esistenza di razze canine, equine, feline, ecc. Ogni specie animale e vegetale ammette al suo interno delle varianti o razze che si caratterizzano per evidenti differenze morfologiche ma non impediscono gli incroci e la nascita di ibridi, il che di norma non avviene tra specie diverse. L’uomo farebbe eccezione se lo si considerasse non un animale, ma un essere a sè stante privo di analogie con i mammiferi. Per quale motivo tanti genetisti, a cominciare da quelli americani, negano l’esistenza delle razze umane? Probabilmente per ragioni ideologiche estranee alla scienza. Escludere l’esistenza delle razze significa rimuovere alla radice il problema del razzismo, che pesa sulla coscienza dell’Occidente, in particolare degli Stati Uniti. Chi non ha colpe da cancellare non ha difficoltà ad ammettere l’esistenza delle razze umane, poichè il razzismo non consiste nel riconoscerle, ma nell’affermare la superiorità di una sulle altre.
Caro lettore, gli animali che citi non sono un buon esempio da paragonare agli esseri umani, trattandosi di specie in cui la creazione di razze differenti è legata per lo più alla selezione artificiale prodotta dall’allevamento. I genetisti come Guido Barbujani ci dicono che le razze umane non esistono perché le differenze, genetiche e morfologiche, tra diverse popolazioni umane sono troppo piccole e sfumate per poter suddividere la nostra specie in gruppi e sottogruppi definiti. Per approfondire ti suggeriamo questo vecchio articolo in cui intervistavamo Barbujani al riguardo: https://www.galileonet.it/una-cento-mille-razze/ Ci permettiamo inoltre di suggerirti una riflessione: invece di pensare alle ragioni per cui qualcuno ha difficoltà a riconoscere l’esistenza delle razze umane, perché non meditare su cosa spinga altre persone a ritenere necessario rimarcare l’esistenza di queste presunte differenze?