Droga, religione, terrorismo. Molte sono state le ragioni dell’attacco all’Afghanistan. Ma ce n’è una che, secondo molti osservatori, è stata più determinante di altre: il petrolio. E con esso il dominio di una zona strategica per il rifornimento energetico mondiale, e in primo luogo degli Stati Uniti. L’interesse dei politici americani per il Golfo Persico risale almeno alla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando gli Usa individuarono nell’Arabia Saudita il Paese con la più alta disponibilità di petrolio al mondo. E da allora la loro manovra di avvicinamento alla nazione araba è stata costante, da Carter a Reagan, da Clinton fino a Bush. Ma sulla strada degli statunitensi si è messo Osama bin Laden, con i suoi deliri di onnipotenza, le sue azioni terroristiche e con il suo obiettivo, neanche troppo nascosto, di rovesciare l’attuale regime che governa l’Arabia Saudita, responsabile di aver aperto le porte all’invasione del nemico occidentale. E il regime dei Talebani che ha impedito la costruzione di un oleodotto che dal Turkmenistan sarebbe dovuto arrivare fino al Pakistan, passando ovviamente sul territorio afgano. Opera per cui era in corsa una grande azienda americana. Abbiamo chiesto a Vijay Prashad, professore e direttore associato del programma di studi internazionali del Trinity College di Hartford nel Connecticut di spiegarci gli intrecci economici e politici che passano dalle zone oggi bombardate.
Professor Prashad, ma allora la causa della guerra è il petrolio?
“Diciamo che è una delle cause, insieme all’esigenza di mettere a tacere bin Laden, che più di una volta si è scagliato contro la presenza degli Usa nel Golfo e in Arabia Saudita. Il conflitto interessa gli oleodotti così come la politica del maggior produttore mondiale di petrolio. E poi ovviamente i terroristi”.
In Afghanistan quali tentativi sono stati fatti di costruire oleodotti?
“Il gasdotto in gioco è quello che unirebbe una provincia del Turkmenistan al Pakistan attraverso l’Afghanistan. Per questo progetto, che vale milioni di dollari, si erano proposte due multinazionali: la statunitense Unocal e l’argentina Bridas. Entrambe hanno cercato di avere buoni rapporti con i Talebani, che però hanno giocato al rialzo. In particolare l’impresa Usa nel 1997 pagò circa un milione di dollari all’Afghan Studies Center presso l’Università del Nebraska per garantire a 400 afgani corsi di formazione sulla costruzione di oleodotti. E ancora, la Unocal pagò ai Talebani un tour negli Stati Uniti proprio per convincerli della bontà della loro offerta. Insomma, quando nel 1996 i fondamentalisti islamici salirono al potere i vertici dell’industria americana furono contenti. Speravano di poter realizzare il loro progetto”.
E poi cosa accadde?
“Nel 1998, il presidente Clinton bombardò l’Afghanistan e il piano fallì. Qualche cosa si mosse poi nell’aprile del 1999 quando i ministri dell’energia di Afghanistan, Pakistan e Turkmenistan si incontrarono per parlare del progetto. A quell’incontro era presente anche l’ex re afgano Zahir Shah che spinse affinché fosse coinvolta l’Alleanza del Nord e fosse costituito così un consiglio dei vecchi. Il suo intervento fu sollecitato molto probabilmente dal misterioso stato arabo che paga le spese del suo esilio in Italia”.
Davvero quell’area mediorientale è una miniera di petrolio?
“Basta leggere i rapporti della stessa Unocal. L’azienda americana stima che nel bacino del Mar Caspio – cioè nei territori di Azerbaijan, Uzbekistan, Turkmenistan e Kazakhstan – ci sia una riserva di petrolio pari a 60 miliardi di barili, abbastanza per soddisfare le esigenze di tutta l’Europa per 11 anni. E la via migliore di acceso a questa miniera è l’Afghanistan”.
A proposito, qual è il ruolo dell’Uzbekistan in questo conflitto?
“Gli Uzbechi hanno permesso agli Stati Uniti di ostacolare la Shanghai Cooperation Organization, la coalizione messa a punto nel giugno scorso dai governanti cinesi, russi, kazaki, tajiki, e kirghisi (a cui poi si sono aggiunti gli uzbechi) per combattere il terrorismo islamico di matrice saudita e talebana. Il regime di Karimov vuole giocare quindi su tutti e due i fronti: da una parte, nel 1995, ha firmato un accordo con gli Stati Uniti che consentiva alla superpotenza di addestrare militari uzbechi direttamente sul suo territorio, dall’altra è voluto entrare a far parte della coalizione asiatica contro il terrorismo, minandone così l’indipendenza. Ora una eventuale vittoria delle truppe americane sui Talebani aumenterebbe il peso degli uzbechi sulla regione”.