Le grandi riviste scientifiche internazionali hanno espresso un giudizio unanime e positivo sulla riforma del nostro massimo ente pubblico di ricerca italiano, il Cnr, e della nostra Agenzia spaziale, l’Asi. Un giudizio che condividiamo. Perché la riforma di entrambi gli enti annuncia una maggiore chiarezza degli obiettivi, premia il merito scientifico, incrementa l’efficienza della spesa, impone standard ormai consolidati nella organizzazione del lavoro di ricerca a livello internazionale. In una parola, peraltro abusata, ci avvicina all’Europa e al resto del mondo avanzato.
Sia il Cnr che l’Asi avevano bisogno di essere riformati. Anche se per motivi abbastanza diversi. Il Cnr vanta una tradizione antica. Che, negli ultimi tempi, si era un po’ appannata. Non certo per colpa dei suoi ricercatori. Ma per ragioni strutturali: i finanziamenti a pioggia; il peso incrementale dell’apparato burocratico; la scelta, operata dal paese, di privilegiare l’università a scapito dell’ente; il merito scientifico troppo spesso subordinato a considerazioni politiche e/o sindacali. La riforma sembra operare nella direzione giusta per incrementare l’efficienza della spesa e restituire al merito scientifico un ruolo primario. E fa tutto questo senza intaccare la preziosa vocazione generalista del Cnr. L’ente, attraverso i suoi tantissimi istituti e centri, continuerà a occuparsi di tutto lo scibile scientifico. Alcuni dubbi possono (e forse devono) essere espressi sul fatto che alcuni poteri di indirizzo vengono avocati dal Ministero e consegnati, almeno in parte, a un comitato non squisitamente tecnico. Ma, nonostante questo, la riforma del nostro massimo ente di ricerca va giudicata positivamente. A patto, però, che non ingeneri troppe illusioni. Si tratta di una riforma parziale, che non aggredisce i due maggiori problemi della ricerca italiana: la ricerca senza fondi e la crescita senza ricerca.
L’Italia era e resta il fanalino di coda, tra i grandi paesi industrializzati, per investimenti nella ricerca scientifica. Spendiamo la metà della media europea, un terzo rispetto a Stati Uniti e Giappone, addirittura un quarto rispetto alla Svezia. In queste condizioni non solo la nostra ricerca scientifica e tecnologica, salvo rare eccezioni, non è e non potrà diventare competitiva. Ma non è, e non potrà diventare, neppure troppo efficiente. L’efficienza, sosteneva un arguto fisico inglese, è un lusso che possono permettersi solo i ricchi.
L’economia del nostro paese è cresciuta molto, negli ultimi 50 anni. Grazie anche alla capacità di vendere i nostri prodotti all’estero. Siamo molto capaci di vendere prodotti di qualità nei settori a bassa e media tecnologia. Tuttavia, tra i grandi paesi avanzati, siamo in seconda fila nella capacità di realizzare e vendere prodotti ad alta tecnologia. La nostra industria investe pochissimo in ricerca scientifica. L’Italia preferisce acquistare le idee altrui (brevetti), piuttosto che investire sulle proprie. Finora questo modello economico di “crescita senza ricerca” ha funzionato. Il paese si è arricchito, ritagliandosi nicchie di mercato nel campo delle “commodities”. La globalizzazione dell’economia e l’entrata sulla scena di paesi di nuova industrializzazione e con un basso costo del lavoro deve, almeno, farci riflettere sulla possibilità che il vecchio modello possa ancora funzionare. La riforma del Cnr non entra nel vivo di questa, auspicabile e decisiva, riflessione.
Diversa è la situazione dell’Asi. La nostra agenzia spaziale veniva da un passato a dir poco burrascoso. Ma negli ultimi anni ha saputo venire fuori dalla burrasca e acquisire una nuova credibilità, anche e soprattutto all’estero. Suggellata, per esempio, dai recenti accordi diretti con la Nasa per una importante collaborazione alla realizzazione della Stazione spaziale internazionale. La riforma interviene su un Ente che ha obiettivi definiti, ampi finanziamenti e una recente, ma ormai robusta, salute. Inoltre l’Asi può contare sulla collaborazione di uno dei pochi comparti della nostra industria, quello aerospaziale, in grado di competere nel campo dell’alta tecnologia. L’Agenzia spaziale tende, quindi, a configurarsi più come un’eccezione che come la regola.